Martedì 22 marzo venti persone sono state ammazzate da un attacco terroristico alla stazione di Maelbeek, a dieci minuti da casa mia, a Bruxelles. Circa un’ora prima altre undici avevano perso la vita all’aeroporto di Zaventem, e da quel momento ho la testa che scoppia di pensieri tristi e lo stomaco che si contorce di ansie.
A farmi paura non c’è solo la banalità del male o la possibilità che il prossimo attentato possa colpire me o qualcuno a cui tengo, ma mi terrorizzano anche le implicazioni che questa tragedia avrà sulla società in cui vivo. È facile immaginare quanto sciacallaggio politico e odio xenofobo alimenteranno i prossimi talk show e i profili Twitter di alcuni personaggi.
Già sento parlare di bombardamenti a tappeto e di “fottuti musulmani”, perché in questi momenti diventa troppo facile cadere nella trappola della generalizzazione e lasciare che la rabbia prenda il sopravvento sulla ragione. Invece, basta fermarsi a pensare due minuti per capire che gli islamici sono le prime vittime di questo fanatismo. Tenendo fuori i morti della guerra in Siria e in Iraq, dove il califfato ha fondato il suo stato, nel corso dell’ultimo anno si parla di diverse centinaia di vittime nei soli attacchi terroristici rivendicati dall’Isis. I paesi colpiti sono l’Indonesia, lo Yemen, l’Afghanistan, la Tunisia, la Turchia, il Libano e la Libia, tutti stati a netta maggioranza musulmana.
Si può continuare parlando del gruppo Al-Shabaab, dei 148 morti del campus universitario in Kenya (2 aprile 2015) e delle 20 vittime delle autobombe di Mogadiscio, in Somalia (21 gennaio 2016). E la lista prosegue con la sanguinosissima organizzazione Boko Haram e i suoi continui attentati tra Nigeria, Camerun, Niger e Ciad, anche questi con almeno una metà di popolazione di fede islamica. Nel solo massacro di Baga, a gennaio 2015, si è parlato di circa 2.000 morti, della distruzione di svariati villaggi e della stessa città rasa al suolo.
L’elenco dei gruppi terroristici potrebbe continuare sino allo sfinimento così come il conteggio delle sue vittime, e “fottuti musulmani” non può essere la giusta risposta a questo problema. Sarebbe come urlare “fottuti spagnoli” per gli attacchi terroristici dell’Eta, quando gli spagnoli sono stati le principali vittime. Come gridare “fottuti colombiani” per gli attacchi delle FARC, quando i colombiani sono anch’essi le prime vittime.
Sarebbe anche come pensare “fottuti italiani” per le Brigate Rosse o per le vittime della mafia italiana, nel mondo…
Scrivo queste parole con la consapevolezza di averle già ripetute mille volte sotto la derisione dei tanti che mi credono una buonista ingenua che pensa di vivere nel mondo dei balocchi. Ma la verità è che di balocchi ne vedo sempre meno e mi disarma l’impotenza davanti a queste tragedie. Mi assilla il timore di vivere in una società sempre più incattivita e intollerante, e già immagino come questo “attacco all’Europa” troverà risposta nella gestione dei flussi migratori e dell’accoglienza dei rifugiati.
Perché la paura e la diffidenza chiederanno di alzare muri sempre più alti e di fortificare le frontiere per impedire a qualche “fottuto musulmano” di farsi esplodere nelle nostre città.
In pochi ricorderanno che i terroristi degli attentati sono nati e cresciuti in Europa e che, come afferma l’ultima indagine dell’Europol (massima autorità di polizia europea), “gli appartenenti a gruppi terroristici o i foreign fighters di ritorno generalmente non si affidano ai servizi offerti dalle reti dei trafficanti di migranti”. Quindi, mentre ci preoccupiamo di contenere i flussi migratori siglando accordi con la Turchia e sovvenzionandola con miliardi di Euro, una minaccia più subdola e silenziosa cresce fra le mura delle nostre case accoglienti. Troppo impegnati a difenderci dagli stranieri che fuggono da guerre e miseria, abbiamo perso di vista quei concittadini che nella ricerca di uno scopo ricostruiscono piccoli teatri di guerra nelle nostre città.
Mentre i giornali parlano di Bruxelles e delle cellule terroristiche che vi pullulano dentro, penso che aver pattugliato le strade con camionette e soldati armati non sia bastato a fermare questo orrore. Penso che per costruire una bomba in casa e far saltare in aria venti persone dentro una stazione basti un folle con una visione distorta della vita. E poi penso che i folli sarebbero molti meno se riuscissero a godersi le gioie di questo mondo.
Con umiltà e inquietudine cerco un antidoto a tutto questo, e mi torna alla mente la teoria delle finestre rotte, che con un esperimento di psicologia sociale aveva dimostrato che “se si rompe un vetro nella finestra di un edificio e non viene riparato, saranno presto rotti tutti gli altri. Se una comunità presenta segni di deterioramento e questo è qualcosa che sembra non interessare a nessuno, allora lì si genererà la criminalità”.
Così mi tornano alla mente i quartieri ghetto di questa città, come alcune zone del bistrattato comune di Molenbeek, venuto alla ribalta perché luogo di residenza di personaggi legati agli ultimi attacchi terroristici. E inevitabilmente mi viene in mente il Vk, la sala concerti simbolo di un’alternativa a quel degrado, che dopo 27 anni rischia di chiudere per mancanza di fondi.
Oggi più che mai mi sento di difendere questo locale come un’emblema della cultura, della musica e dello spazio di socialità che incarna dentro Molenbeek. Oggi più che mai vorrei che certe zone di Bruxelles, Parigi e di qualunque altra città si gremissero di luoghi come il Vk, insieme a teatri, gallerie, librerie e centri sportivi e di aggregazione. Perché l’annichilimento e il fanatismo annegassero nell’eccesso d’intelligenza e di bellezza che l’umanità può generare, e perché non ci siano più “finestre rotte” ma semplicemente un mondo da vivere.