“Quello che finora ci può avvantaggiare è che in Italia gli immigrati di seconda e terza generazione sono ancora pochi. E, come abbiamo visto in Francia e in Belgio, è tra di loro, figli e nipoti, che si sviluppa più facilmente il germe del terrorismo islamico”. Stefano Silvestri, esperto di geopolitica, sicurezza e terrorismo, è consigliere scientifico dell’Istituto affari internazionali, centro studi di cui è stato presidente fino al 2013.
L’Italia per ora può dirsi al riparo da eventuali azioni?
“Assolutamente no. I terroristi, come abbiamo visto, possono colpire ovunque. Ma abbiamo due vantaggi rispetto a Francia e Belgio. Da una parte siamo dotati di un’intelligence e di forze di polizia molto ben preparate, abituate ad avere a che fare con organizzazioni criminali. In secondo luogo, abbiamo per lo più immigrati di prima generazione, che sono venuti qui per lavorare, in cerca di una vita migliore. Mentre le minacce, come si è visto, arrivano da quelli di seconda e terza, che da noi sono pochi rispetto a quelli di altri Paesi europei”.
Che idea si è fatto degli attentati in Belgio?
“Sono in linea con quelli di Parigi, organizzati per fare più vittime possibili, in maniera piuttosto rozza. Al Qaeda da questo punto di vista era più sofisticata, perché puntava su obbiettivi specifici, anche molto ben protetti, come le ambasciate. All’Isis non importano obbiettivi importanti, ma sparare nel mucchio, sui civili. Ricorda la strategia della tensione in Italia negli anni Settanta”.
Sono terroristi diretti dallo Stato islamico?
“E’ tutta gente cresciuta in Europa, nelle nostre città. Secondo le informazioni in mio possesso non c’è un legame diretto. Lo Stato islamico dà delle indicazioni di massima attraverso i suoi organi mediatici, poi questi gruppi si attivano in maniera autonoma, come una sorta di franchising del terrore”.
Ci sono state delle defaillance nei servizi di sicurezza belgi o francesi?
“E’ sempre molto difficile contrastare questi eventi. Ma i belgi mi sono sembrati carenti, se non altro perché ci hanno messo così tanto a scovare Salah, nascosto nel quartiere di Bruxelles più nel mirino in quanto a integralismo islamico. Annunciare al mondo intero che Salah sta collaborando con la giustizia mi è sembrato un errore da principianti”.
Come si combatte questo genere di terrorismo?
“Bisogna muoversi su tre livelli. Il primo: tenere sotto controllo le comunità islamiche delle nostre città, le prediche degli imam e i gruppi più integralisti. E’ complicato, anche perché, come si è visto, alcuni terroristi sono nati nella stessa strada e si conoscono fin da bambini, quindi è difficile infiltrare agenti sotto copertura. In secondo luogo, monitorare i loro media, internet, social e giornali, per cercare di intercettare messaggi, anche in codice. Infine, l’indagine vecchia maniera, fatta di informatori e monitoraggio di attività criminose come lo spostamento di armi o di esplosivi, l’acquisto di passaporti falsi”.
E’ vero che la nostra intelligence e le forze dell’ordine sono di buon livello?
“Premesso che è quasi impossibile intercettare uno che si fabbrica un esplosivo in casa e poi si fa saltare in mezzo alla folla, i nostri apparati di sicurezza sono di un ottimo livello. Forse anche per il fatto che negli anni hanno dovuto affrontare tante emergenze, dal terrorismo politico alla criminalità organizzata di stampo mafioso”.
Secondo lei per combattere lo stato islamico ci vorrebbe l’intervento di truppe di terra, i famosi “boots on the ground”?
“Sì, ma non da parte dei Paesi occidentali, che andrebbero a infilarsi in un altro ginepraio da cui sarebbe difficile uscire. In passato abbiamo dimostrato di non essere capaci di interventi militari chirurgici. L’ideale è trovare un Paese islamico o una coalizione di essi disposti a mandare truppe di terra, con il supporto logistico e aeronautico dei paesi occidentali. Da questo punto di vista credo comunque che, con il nuovo inquilino alla Casa Bianca, qualcosa cambierà anche nella politica militare americana. Per loro, però, il Medio Oriente non ha più un’importanza vitale, ma solo strategica”.
Lei è a favore di un intervento in Libia?
“No, perché c’è il rischio che si trasformi in un tutti contro tutti. La situazione è poco chiara e il livello di confusione è massimo. E sono contrario a un coinvolgimento diretto dell’Italia”.
In Europa si sente l’esigenza di una polizia e un’intelligence unica, continentale.
“Un’unica intelligence è impossibile, perché ogni stato vuole mantenere un livello di segretezza che gli è proprio. Creare una polizia unica o un unico esercito è un progetto più fattibile e potrebbe anche risultare utile”.
Qualcuno sostiene anche che paradossalmente proprio il controllo sul territorio di mafia, camorra e ndrangheta possa essere un vantaggio contro il terrorismo islamico…
“E’ una tesi strampalata, perché i mafiosi seguono interessi che non sono esattamente la difesa della vita dei cittadini. In passato lo Stato ha provato a farsi aiutare dalla mafia nella lotta al terrorismo, ma con scarsi risultati”.