“A che ora è la rivoluzione? Come si deve venire? Già mangiati? (Vittorio Gassman, “La terrazza”)
GENOVA-MILANO – Corrono 2.500 anni tra Prometeo e Rubasho; in mezzo passa il Mito e la pagina scritta, li dividono gli Dei e la Rivoluzione Russa, i racconti degli aedi e Stalin. Così lontani e così vicini. Due eroi anti-eroi, eroi loro malgrado, non volendolo essere, non capiti nemmeno dai propri simili e per questo abbandonati al proprio destino, perdente fin dall’incipit. Le loro battaglie sono segnate fin dal primo passo. Prometeo, nei versi di Eschilo, finisce Incatenato per l’eternità, Rubashov, nell’inchiostro di Arthur Koestler, è segregato, torturato, reo confesso di spionaggio e controrivoluzione. Passano i secoli e i millenni e siamo sempre al punto di partenza. Chi scopre il fuoco della conoscenza e non riesce a recapitare il messaggio, a renderlo terreno comune condiviso, a portarlo alle coscienze, ad illuminare il nero della cappa del potere.
Assistere un giorno dopo l’altro a “Buio a mezzogiorno”, produzione Teatro della Tosse a Genova, per la regia di Laura Sicignano, e “Prometeo incatenato” per la regia di Pasquale Marrazzo, al Litta milanese, fa esplodere sensi e rimandi, allitterazioni e congiunzioni. Le domande, in fondo, sono le stesse. Come comportarsi davanti alla verità, se tacere e vivere nell’inferno interiore, o tentare di parlare, di ribellarsi, di urlare e finire i propri giorni nella punizione. Tra rimpianto e rimorso. Se sai, non hai scampo. Prometeo e Rubashov sono Giordano Bruno e Galileo, sono Gramsci e Savonarola, sono Giulio Regeni e la Politkovskaja, sono Ilaria Alpi e Davide, sono Kennedy e Falcone e Borsellino, sono Masaniello e Gandhi, sono Cristo e Mandela, sono Lech Walesa e Aung San Suu Kyi, sono Pavese e Assange, sono Primo Levi e Silvio Pellico. Ed infiniti altri sconosciuti. Mettere la propria vita nelle mani di un’idea, senza tornare indietro, arrivando fino in fondo al tunnel e pagando in prima persona. I capri espiatori sono fondamentali per rinsaldare i valori di una società.
A Genova esistono ancora gli stalinisti che, con educazione e senza picchettaggi, hanno volantinato davanti alla Tosse promuovendo un loro comunicato dove esprimevano il dissenso, non tanto artistico, quanto sull’operazione che, a loro avviso, avrebbe delineato negativamente il Numero 1, ovvero Stalin. I dati, dopotutto, sono inconfutabili tra purghe, Siberia e l’eliminazione degli oppositori politici si arriva ad un computo che oscilla, a seconda delle varie ricostruzioni e documenti storici, tra i quindici e i sessanta milioni di morti. Non proprio un bilancio positivo. Il nostro funzionario (Aldo Ottombrino che pare pelle e ossa per l’occasione, centrale, asciutto, mai patetico) chiuso in un semicerchio con cinque cancellate di altrettante celle rimbalza sul muro di gomma di ufficiali indottrinati (Gianmaria Martini, freddo ed efferato) e ligi ad un dovere supremo, che la verità sia una tesi soltanto da dimostrare. Il silenzio dei comunisti. Se l’ex dirigente di partito si mostra come l’unico che parteggia per il popolo, il Potere machiavellico alimenta soltanto se stesso e le sue fondamenta, creando nemici ad arte per avere la possibilità di autoaffermazione e ricorso a nuove solidità, giri di vite, controlli e provvedimenti interni, manie di persecuzione e senso di accerchiamento.
“Indorare ciò che è giusto, annerire ciò che è errore” e “La prima persona singolare deve essere eliminata”, “Il più grande esperimento sociale della Storia”, “Governare le masse”, “Pietà, vergogna, compassione sono sentimenti borghesi”. E quando si alza la luce sulla platea gli accusatori, gli ufficiali, i torturatori, silenziosi e accondiscendenti, siamo anche noi. Ogni leader è un abuso di potere, le masse li spingono sullo scranno per venire a loro volta sacrificate. L’opposizione è un delitto e il partito una macchina, un organismo fatto di persone ma che non ha più bisogno di uomini ma di automi, meri esecutori di ordini.
Non sbarre e cancelli arrugginiti ma una selva di lame conficcate a terra, come una foresta di lance scagliate arrabbiate dalle nuvole impetuose e turbolente contro il piccolo uomo che si è permesso di andare contro al volere degli Dei. È la scena del “Prometeo incatenato”, un bosco (per la verità non così utilizzato dalla messinscena, e che invece poteva essere osato maggiormente) di lastre lignee, fanoni di balena, spaghetti di grano arso ad essiccare o baionette sferrate come arpioni sulla schiena di Moby Dick, quasi opera d’arte contemporanea, con i suoi sentieri interni, che ci ricorda gli habitat di Rezza/Mastrella. Si comincia con un preambolo in greco. Incomprensibilmente, in greco moderno, attuale, e non antico, come al limite, per dare un tocco demodé di classicità, si poteva fare. I costumi sono in nero astronauta futurista con Swarovski sul petto in uno Star Trek scintillante e modaiolo che ben presto si trasforma in bagarre, torture, in violenze e sevizie della migliore Passione di Cristo: “Il mio strazio non lo cambierei con il tuo servilismo”. Prometeo (un vigoroso Riccardo Buffonini) è un Cristo terreno che assorbe senza scaricare sugli uomini, fa da parafulmine nella sua lotta singolare e privata, solitaria e isolata, e quello che altri chiamano colpa per lui è necessità. Prometeo è Icaro, che brucia per i nostri sogni. “Pochi uomini desiderano la libertà, molti si augurano solo un padrone giusto”, Sallustio.