di Roberto Iannuzzi *

L’intesa tra Ue e Turchia per gestire l’emergenza profughi mostra già tutti i suoi limiti, a pochi giorni dalla sua entrata in vigore. L’isola greca di Lesbo, principale punto d’ingresso dei migranti in Europa, è nel caos, e il governo di Atene ha ammonito sull’impossibilità di assicurare un’immediata applicazione dell’accordo.

Nelle dichiarazioni dei promotori, l’intesa doveva essere vantaggiosa per tutti. Essa permetterebbe all’Ue di salvare il trattato di Schengen. Garantirebbe alla Turchia la riapertura del processo di adesione all’Unione e un sostanzioso aiuto finanziario (più di 6 miliardi di euro) per trattenere in loco la massa migratoria proveniente dalla regione mediorientale. E consentirebbe ai profughi di non mettere la propria vita alla mercé di trafficanti senza scrupoli, grazie all’apertura di canali ufficiali per giungere in Europa.

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Nella realtà, tuttavia, le isole greche non sono in grado di smaltire le pratiche dei richiedenti asilo in tempi accettabili. Gli “hotspot” rischiano di diventare prigioni. Il problema della redistribuzione dei rifugiati che entreranno in Europa permane. E soprattutto la Turchia non può essere legalmente definita un “paese sicuro” verso cui è consentito rispedire coloro le cui richieste di asilo vengono scartate.

Nel complesso, “subappaltando” la sicurezza dei confini europei a una Turchia dalle tendenze sempre più marcatamente autoritarie, l’Ue calpesta i propri stessi valori.

Oltre un decennio fa, la prospettiva era diversa. Fino al 2005 l’appoggio europeo contribuì a rafforzare il processo di democratizzazione turco, promosso dal partito Akp dell’allora primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Quest’ultimo propagandava un modello che sintetizzava Islam, democrazia e libero mercato. Tale modello purtroppo ha fallito, e il rifiuto europeo di portare avanti il processo di adesione della Turchia, a causa dell’opposizione di paesi come la Francia, ha parzialmente contribuito a un simile esito.

Di fronte alle resistenze europee, Ankara cercò di creare una propria area di influenza in Medio Oriente, in base a una politica denominata “zero problemi con i vicini”. In un primo momento, lo scoppio delle rivolte arabe fece illudere Erdogan di poter esportare il “modello turco” nella regione. Ma il fallimento dei partiti islamici arabi, e l’inaspettata sopravvivenza del regime di Damasco nella guerra civile siriana, infransero il sogno turco.

In Siria, Ankara aveva agito in collaborazione con Washington già dalla fine del 2011, sperando di portare al potere un governo affine all’Akp. Con l’inasprirsi del conflitto, la Turchia non aveva esitato ad appoggiare gruppi radicali come Al-Nusra (formazione affiliata ad Al-Qaeda). E sono addirittura emersi numerosi indizi di una più o meno velata collusione turca con l’Isil, il sedicente califfato insediatosi a cavallo fra Siria e Iraq.

Nel frattempo, in patria, la lunga parabola di governo dell’Akp aveva mutato il partito in uno strumento di monopolizzazione del potere. Le proteste popolari scoppiate nel Parco Gezi a Istanbul, nel maggio 2013, sono state brutalmente represse dalla polizia. La stampa è stata progressivamente imbavagliata.

Oggi Erdogan deve fare i conti con le conseguenze della sua deriva autoritaria e della sua sciagurata politica siriana. Il paese è alle prese con un’impressionante ondata di attentati, rivendicati ora da cellule dell’Isil che da tempo prosperano nel paese, ora da gruppi curdi vicini al Pkk (il Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Con il Pkk, in particolare, è in corso una guerra civile strisciante dopo che il processo di rappacificazione con la minoranza curda (circa il 20% della popolazione) è naufragato a metà del 2015.

E’ questa Turchia squassata da conflitti interni ed esterni che l’Ue ha definito “paese sicuro” per i migranti, suscitando le proteste di numerose ong che hanno più volte denunciato gli abusi del governo turco a danno di questi ultimi. L’intesa siglata da Ankara e Bruxelles sancisce un capovolgimento storico. Se per lungo tempo è stata la Turchia a corteggiare l’Unione, oggi i ruoli appaiono invertiti. Adesso è l’Ue, spinta dalla propria crisi d’identità (acuita, ma non certo provocata, dall’emergenza profughi), ad aver bisogno della Turchia, dimenticando la progressiva erosione delle libertà democratiche nel paese.

L’accordo sui migranti segna perciò un riavvicinamento di pura necessità, un matrimonio d’interesse fra due attori soffocati dai propri problemi interni. Ma è anche un’intesa fuori tempo massimo. Di per sé fragile, essa rischia di naufragare sotto la pressione migratoria. Inoltre, l’ondata di profughi troverà comunque nuovi sbocchi verso l’Europa fino a quando il conflitto siriano e altre crisi regionali l’alimenteranno. Ciò continuerà a esacerbare le tensioni all’interno dell’Unione.

Quanto alla Turchia, probabilmente non otterrà l’esenzione dal visto Ue per i propri cittadini, come promesso dall’accordo, né deve illudersi che il processo di adesione all’Unione avrà più fortuna che in passato. Un numero sufficiente di paesi europei rimane infatti contrario a entrambe le ipotesi.

Il matrimonio euro-turco avrà probabilmente vita breve, ma entrambi i contraenti rischiano di ritrovarsi in una situazione peggiore di quella attuale quando avverrà la separazione.

* Roberto Iannuzzi è ricercatore presso il Centro Studi UNIMED (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale (Twitter: @riannuzziGPC)

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