Se un tempo eravamo un popolo di poeti, santi e navigatori, oggi siamo un popolo di tuttologi, di statisti, di allenatori, di critici. Non è un caso che le bufale attechiscano con questa facilità, il tempo dedicato all'approfondimento è talmente minimo da non essere ancora stato fermato dal CERN e i link che si condividono, quasi sempre, neanche vengono aperti
State leggendo queste parole dallo smartphone, o dal pc. Questo è un articolo pubblicato da un quotidiano online. Magari ci siete arrivati passando da una pagina Facebook. O da Twitter. La rete è parte delle nostre vite. La rete ha cambiato le nostre vite. Oggi siamo tutti social. La società è social. Le notizie viaggiano di qui, velocissimamente, al punto che se vogliamo sapere se è successo qualcosa, se è morto qualcuno, se il tempo è brutto o bello, andiamo a vedere in rete, come un tempo facevamo con giornali di carta e tv. Tutto bello, insomma. Apparentemente.
Perché ovviamente c’è anche un rovescio della medaglia, e non potrebbe che essere così. Non parlo solo e tanto della difficoltà, oggi, di controllare le notizie, perché su quello, ormai, ci stiamo facendo le ossa, e una certa consuetudine alle bufale ormai è diventata endemica, dandoci modo di sviluppare gli anticorpi. E nemmeno dello scollamento dalla realtà dovuto all’abuso di smartphone e tablet. No, qui si parla d’altro. Un aspetto più delicato, che magari non è stato ancora decodificato, e i commenti che si leggeranno in calce a questo articolo, o al link che rimanda a questo articolo nei social del Fatto Quotidiano non potranno che confermare quanto andrò a dire.
Il fatto è che i social hanno fatto passare l’idea che esista una sorta di democrazia intellettuale, per cui chiunque scrive su qualsiasi argomento, convinto della propria rilevanza. Di più, molti sono talmente convinti di ciò, da pretendere di convincere gli altri di essere in possesso del Verbo. Così succede che, qualsiasi articolo venga pubblicato diventa occasione di dibattito pubblico, con tutti a parlare con veemenza di qualsiasi argomento, senza competenze, ma anche senza voglia di farsele certe competenze. Ma questo succede anche più semplicemente per ogni post che facciamo su Facebook, per ogni Tweet. Diciamo che abbiamo mangiato la pasta alla Carbonara? Ecco che tutti si sentono in diritto, se non addirittura in dovere, di farci sapere cosa pensano della Carbonara stessa, come ritengono vada eseguita la ricetta corretta, condendo il tutto con proclami più o meno definitivi sulla dieta mediterranea, sul nostro girovita e, magari, anche su Renzi (che non c’entra niente ma va bene un po’ con tutto, come il nero). E voi che avevate solo mangiato una pasta alla Carbonara, senza dare a quel gesto un valore altro di voi che, di buon appetito, vi preparate un piatto di pasta alla Carbonara e ve lo gustate.
E questo è un esempio su mille, su milioni. Tutti sanno tutto. E tutti possono dirlo, hanno una platea. Il che ingenera un equivoco clamoroso, equivoco stante nel presupposto che quel pubblico siamo in effetti noi, volenti o nolenti. Non ci interessa un commento? Male, dobbiamo rispondere, dar vita al dibattito, rispondere, possibilmente dando ragione al nostro interlocutore. Se no siamo rosiconi. Anzi, rosiconi lo siamo sempre, a prescindere, e non si sa bene perché e per come. Quando poi, malauguratamente, proviamo a far notare che, magari, non siamo interessati all’opinione di chi cerca di imporci il proprio punto di vista manco fosse una missione per conto di Dio, ecco che scatta l’accusa di arroganza. Ti senti superiore agli altri.
Gli altri, del resto, nel mentre staranno dicendo la loro nelle loro bacheche. La loro su tutto. Un giorno tutti discettano di moviola in campo, facendo ragionamenti tattici che neanche Liedholm ai tempi d’oro, un altro tutti a spiegarci come funziona in realtà il terrorismo internazionale, trovando soluzioni che, apparentemente, sembrano difficili ai più. E poi si parla di arte, che sia cinema sotto la Notte degli Oscar, letteratura quando sta per essere proclamato il vincitore dello Strega e musica ogni volta che muore un cantante e di colpo tutti condividono aneddoti, ricordi, video. Ma è soprattutto nel trovare soluzioni e fare approfondimenti che il popolo del web è campione. Se un tempo eravamo un popolo di poeti, santi e navigatori, oggi siamo un popolo di tuttologi, di statisti, di allenatori, di critici. Non è un caso che le bufale attechiscano con questa facilità, il tempo dedicato all’approfondimento è talmente minimo da non essere ancora stato fermato dal CERN e i link che si condividono, quasi sempre, neanche vengono aperti.
Teniamo fuori da questo discorso la politica, perché di quella, a ben vedere, si è sempre parlato a sproposito, anche prima dell’avvento dei social, che si trattasse della piazza del paese, del bar o della sezione di partito. Oggi, semplicemente, non abbiamo più bisogno di fare comizi, abbiamo già la nostra tribuna elettorale 24 ore al giorno. Ecco, guardando a tutto questo possiamo dire che la democrazia del web è un po’ vacillante. Perché magari uno vorrebbe condividere qualcosa, e si trova in balia di un costante giudizio universale, e perché farsi un giro per i social equivale all’essere sommersi di opinioni, a volte serie, ma molto spesso involontariamente ridicole. A quel punto, ovvio, meglio farsi un piatto di pasta alla Carbonara.