“Quando ho cominciato la mia carriera a 30 anni non telefonavano per chiedere qual era la commedia da mettere in scena, ma dicevano ‘è quella con quell’uomo vestito da donna? Allora sì, va bene’. Una roba di un’infimità sociale assoluta che però mi ha aiutato e i miei difetti son stati anche le mie virtù”. Paolo Poli, morto a Roma ad 86 anni, ha sempre raccontato tanto, tutto, di sé. Irrefrenabile chiacchierone, affabile declamatore di storie personali ed altrui, sagace battutista sia che si parlasse di sesso, di Chiesa o di Roberto Benigni (“È diventata tutta correttina. Va a Sanremo a dire: ‘Vergine madre, figlia del tuo figlio’. Io mi romperei i coglioni”).
Di fronte all’intervistatore, spesso, in rigoroso mini papillon; sul palco teatrale, sempre, en travesti: tacchi, calze, gonne ampie e corpetti tesi, parrucche perlopiù bionde e treccine innocenti. Sempre tollerato. Quota bizarre. E intanto la graduale e certosina ‘diversità’ dell’artista diventa insostituibile. Le motivazioni non saranno il massimo, ma l’uomo travestito da donna funziona. Nessuno lo picchia. Di minacce omofobe non ne registra.
Lui, forse è ancora un lui e non ancora una recitante lei, all’inizio, a macerie della seconda guerra fumanti, declama favole per bimbi, interpreta, solo con la voce, streghe, cavalieri e principesse (“Ero di quelli pronti di parola e di memoria facilissima. Imparavo in un attimo, leggevo la poesia poi la ridicevo subito”). Sono tante le versioni ufficiose dell’epico via sul palco. Forse la più vicina al vero è quella della Compagnia dell’Alberello a Firenze nei primi anni Cinquanta con Poli comico assieme a Ferruccio Soleri e Ilaria Occhini. Poi ci sono le foto dell’amico Zeffirelli, particine al cinema, i terrificanti racconti dal set di Alessandro Blasetti. Poli nel ’58 si trasferisce a Genova e incontra l’impresario Aldo Trionfo. Altra compagnia ed ecco i primi lineamenti dell’attore che poi conosceremo tra gli anni Sessanta e Settanta.
Istrionico, ironico, surreale, i testi spesso scritti da lui stesso diventano un divertissement tra piacere della performance e dimostrazione di un sapere teatrale e letterario fuori dal comune. Poli sembra svolazzare sul palco, ma inchioda alle assi dei palchi italiani un nuovo discorso drammaturgico. Sembra che reciti pièce “leggere” e invece rivoluziona dall’interno il testo, rielabora il senso, ribalta le certezze in materia d’orientamento: l’uomo travestito che ipnotizza per sagacia e conoscenza, che fa sorridere senza volgarità. Marco De Marinis, studioso di teatro al Dams di Bologna, lo cita più volte nei suoi testi inserendolo tra i primissimi protagonisti delle “scene minori” che hanno un legame con le prime “neoavanguardie”, tra Carmelo Bene e Carlo Quartucci; poi in un altro volume finisce tra i primi realizzatori dello spettacolo “a solo” con “monologo”, tra Dario Fo e Leo de Berardinis. I mortali, invece, devono aspettare gli scandali e le censure per sapere che esiste.
Nel 1966 con Rita da Cascia (1966) ricalca la recita parrocchiale fatta solo da maschi e si mette in scena come suora che perfino muore. Fa tutto lui: costumi, scene, trucco, recitazione. Dopo una settimana lo spettacolo arriva a Roma e fa il botto. Una sera entra in sala l’onorevole Renato Tozzi Condivi, un anziano Dc eletto in Parlamento fin dal 1946. A Montecitorio, il giorno dopo Condivi presenta un’interpellanza: come si può mettere in scena uno spettacolo così irriverente? Altri tempi. Si usciva dalla sala e si andava in Questura.
Ma per Poli è, sempre e comunque, manna dal cielo. La sfida sottotraccia e silenziosa contro la “normalità” del teatro, delle parole e della vita è vinta sempre. Anche quando tornato lo spettacolo a Milano i carabinieri irrompono in scena e fermano tutto. Rita da Cascia attenderà il ’77 per tornare ad essere visto. Poi c’è la cancellazione da parte della Rai nel 1970 di Babau, programma scritto con Ida Omboni, e registrato negli studi di Torino, un’indagine in quattro puntate sulle caratteristiche negative dell’italiano medio (mammismo, conformismo, arrivismo, intellettualismo) e summa del repertorio teatrale della sua attività precedente.
Tornerà dopo svariate proteste sei anni dopo, in onda in uno sfortunato orario pomeridiano estivo. Ma è lì che possiamo vedere Poli e Umberto Eco mentre discettano di conformismo. Una rapida lezione tra soloni, esclusivamente alla pari. Uno scambio di effettate volée su un campo da tennis. “Cos’è il conformismo?”, chiede retoricamente Eco. “E’ la cravatta che ti sei messo per venire qui in trasmissione”, lo interrompe Poli. “E’ il maglione nero a collo alto per mostrare che sei l’attore e non l’ospite esterno”, chiosa l’ancor giovanissimo autore di Fenomenologia di Mike Bongiorno.
Per chi è più giovane è stato un peccato poter seguire Poli solo nella sua ultima parte della carriera: non aveva di certo mai perso smalto e verve in scena, ma le piece non avevano più lo slancio, il valore culturale deflagrante, la divertita elaborazione di un tempo. Poli tra gli anni Ottanta e Oovanta è diventato un’icona di genere, un jukebox a gettone per ogni recita possibile, probabilmente suo malgrado, di una omosessualità mostrata apertamente, ma con un leggero fastidio, chiaramente libertino, per le nozze gay: “Il bello degli amori omosessuali è la loro libertà e la loro riprovazione. Il matrimonio tra gay non mi interessa, come non mi interessa quello tra uomo e donna. Io voglio seguire l’istinto e la perversione, non tornare a casa e trovare qualcuno che mi chiede cosa voglio per cena. ‘Caro, ti faccio la besciamella?’. Fuggirei subito, con un principe o con un marinaio”.
Lui che da piccino giocava a “tirarsi il pistolino” col papà. Madre insegnante dal credo montessoriano, adolescenza fascista, gioventù omosessuale nell’atrio delle stazioni, casa di Mario Soldati e Laura Betti, età adulta da star del teatro. “Bisogna vivere alla luce del sole. Sarebbe opportuno evitare di nascondersi o inventarsi pseudonimi stupidi e inutili. Come Platinette. O Vladimir Luxuria, per esempio”, spiegò una volta. Ognuno ha il suo ricordo dell’immensa, spiritosa, memorabile carriera d’artista di Poli. L’ode al pitale, la leggiadria con cui ha sbertucciato papi, suore e falsi miti della Chiesa, il Pinocchio registrato per i fratelli Fabbri sulle musicassette. Inutile dire che quando vide Giorgio Albertazzi a un talent provò letteralmente “pena”. Lui no. La dignità, prima di tutto. “Esiste un limite. Comunque sono abituato a vivere in povertà. Ho visto una guerra mondiale. Ho vissuto nella miseria successiva al conflitto. Mi sta bene anche la miseria, purché mi permetta di rimanere signore”.