L’imprenditore edile di Bivona, in provincia di Agrigento, che ha denunciato e fatto condannare la cosca mafiosa dei Panepinto ad una pena totale di 76 anni di carcere ora minaccia di darsi fuoco: "Io con la mafia ho vinto, con le storture dello Stato invece sto perdendo tutto"
Ha denunciato i suoi estorsori, testimoniando contro la cosca mafiosa che dettava legge nella zona. È stato il primo testimone di giustizia a rifiutare la protezione in una località segreta, preferendo piuttosto rimanere nella sua città. Purtroppo, però, non è riuscito a salvare la sua azienda dal fallimento, e adesso le banche e lo Stato gli presentano un conto a sei cifre che lui semplicemente non può pagare. È per questo motivo che Ignazio Cutrò, l’imprenditore edile di Bivona, in provincia di Agrigento, che ha denunciato e fatto condannare la cosca mafiosa dei Panepinto ad una pena totale di 76 anni di carcere, è disperato.
“Io con la mafia ho vinto, con le storture dello Stato invece sto perdendo tutto: lavoro, azienda, famiglia, casa. Sono pronto a darmi fuoco”, dice dopo aver ricevuto le ultime istanze di pagamento da parte della Serit e delle banche. “Mi chiedono 300 mila euro da una parte, 87 mila euro dall’altra, 120 mila euro dall’altra ancora”. Sono gli interessi maturati dai debiti della sua azienda, massacrata da decine di danneggiamenti alle attrezzature: erano le minacce di Cosa nostra che voleva obbligare Cutrò a pagare la cosiddetta “messa apposto”, il pizzo mensile per non subire più danni ai cantieri e lavorare in pace. L’imprenditore però non si è piegato, denunciando i suoi aguzzini e collaborando con la magistratura.
Meno roseo, invece, il futuro della sua società: oberata dai debiti e boicottata dal mercato dopo le denunce, ha chiuso i battenti alla fine del 2014. Il rosso però è rimasto, nonostante esistano leggi chiare per una situazione simile. “Un testimone di giustizia – spiega Cutrò – ha diritto ad almeno tre sospensioni delle istanze di pagamento, e per gli imprenditori che denunciano è previsto anche un mutuo agevolato per aiutare le aziende a reinserirsi nel mercato”. Tutte misure che non sono state attivate nel suo caso, nonostante ci fossero ben due perizie, stilate dal Viminale nel 2011, a certificare il danno subito dall’azienda di Cutrò, stabilendo anche il nesso di causa effetto tra il danno e le denunce fatte dallo stesso imprenditore.
Solo che quelle due perizie sono saltate fuori con cinque anni di ritardo, e cioè solo nei giorni scorsi, quando il testimone di giustizia ha esposto la sua condizione alla Commissione parlamentare Antimafia. “Riteniamo che sia giusto che il Ministro dell’Interno si faccia carico della situazione debitoria incolpevole, che rischia di schiacciare Cutrò e la sua famiglia”, dice il deputato Davide Mattiello, che a Palazzo San Macuto coordina il gruppo di lavoro su testimoni e collaboratori di giustizia. “A normativa vigente – continua il parlamentare – sono purtroppo pochi gli strumenti a disposizione del Viminale per intervenire in una situazione che ha caratteristiche molto particolari sul piano giuridico, forse soltanto quello del contributo straordinario e di questa circostanza il Parlamento deve farsi carico”.
Nel frattempo Cutrò ha perso ogni speranza. “Avrebbero potuto salvare la mia azienda, e invece non l’hanno fatto. Avrebbero potuto bloccare le richieste della Serit e delle banche, ma non hanno mosso un dito, nonostante sapessero che la mia azienda non era fallita per la crisi economica ma per le mie denunce: a che gioco stanno giocando? Io ho combattuto Cosa nostra perché credevo nello Stato, mi sono preso i miei rischi e ho ottenuto di rimanere a casa mia, perché volevo comunicare un messaggio forte: sono i mafiosi che devono andarsene e non la gente perbene. Ma adesso, con questa situazione credo che il messaggio lanciato dalla mia storia sia un po’ diverso”. Ovvero? “Un imprenditore che denuncia può anche rimanere a casa sua, ma è destinato a fallire e a perdere tutto”.