Riferendosi all’“appiattimento a pelle d’orso” che ha caratterizzato il rapporto dei giornali con gli ultimi tre presidenti del Consiglio – Monti, Letta e Renzi – Giulio Anselmi, constata amaramente al Fatto che da noi “l’informazione non è considerata un bene comune, ma uno strumento di potere”. In particolare, avendo il presidente in carica messo subito in atto la tecnica del “non fare prigionieri, tutti hanno annusato l’aria immediatamente e c’è stato l’appecoronamento generale”.
Non si possono non condividere questa ed altre valutazioni che l’attuale presidente dell’Ansa e della Federazione Italiana Editori Giornali, che per oltre un trentennio è stato anche uno dei migliori direttori di giornale italiani, esprime a proposito della mancanza di editori veri nel nostro paese (dove “i maggiori quotidiani sono di proprietà di persone che, indossando altri abiti, hanno bisogno del governo”) e in conseguenza di giornali veramente liberi (“subalterni”), di direttori indipendenti e di giornalisti in grado di porsi dalla parte dei lettori (“c’è un problema di scarso coraggio: bisogna aver voglia di sopportare le rogne”).
Non si può peraltro non rilevare, in Anselmi, un coraggio e una indipendenza di giudizio che lo portano a esprimere critiche assai severe nei confronti di due categorie di cui ha fatto autorevolmente parte o è autorevole rappresentante: come direttore, dal 1977 al 2009, ha guidato testate d’establishment come Il Mondo, il Corriere della Sera (per la precisione come vicedirettore e poi condirettore), Il Messaggero, l’Ansa, l’Espresso e La Stampa; come “editore” è stato nominato prima presidente dell’Ansa, cooperativa di 36 soci editori dei principali quotidiani italiani, e poi anche (ed è tuttora) presidente della Fieg, la “Confindustria” delle imprese editrici di quotidiani, periodici e agenzie di stampa di livello nazionale. E’ insomma due volte presidente proprio di quella categoria di proprietari di giornali che “indossando altri abiti, hanno bisogno del governo”.
Ma dalla sua intervista al Fatto Quotidiano del 25 marzo (“L’era di Stampubblica è quella dei giornali che non contano più”), al di là delle sue stesse intenzioni, rischia di emergere un equivoco non di poco conto: quella che il degrado della nostra informazione, l’irrilevanza dei nostri giornali, la mancanza di editori puri, le relazioni impure tra finanza ed editoria, la mancanza di coraggio, l’appecoronamento, l’allontanamento dalla scena (e dal lavoro) dei giornalisti non graditi al potere, ecc. ecc. – o comunque la fase peggiore di questi fenomeni – possano essere datati a cominciare dall’avvento di Mario Monti, salutato da un giubilo a reti unificate, quando Anselmi confessa che “per l’imbarazzo, smisi di portare il loden che avevo comprato a Milano da Bardelli in favore di un normale cappotto”.
Purtroppo i fenomeni denunciati non sono così recenti. E’ dagli anni Ottanta del secolo scorso che i mali storici dell’informazione in Italia – intimità col potere, mancanza di mercato e di meritocrazia, e infine eliminazione delle stesse condizioni materiali che portano alla formazione di una vera opinione pubblica – degradarono in caratteristiche sistemiche. Da allora, non è successo solo che ad un giornalista capace come Anselmi fosse negata la direzione del Corriere della Sera (ma non della Stampa, che trasformò in quello che era ai suoi tempi il miglior quotidiano italiano) e che risultasse alla fine sempre sconfitta, negli anni, la sua puntuale candidatura alla presidenza della Rai o alla direzione del Tg1. E’ almeno da trent’anni che appecoronamento da un canto e allontanamento dei giornalisti più indipendenti dall’altro sono stati elevati a sistema: nel regime tripartitico Dc-Pci-Psi lavoravano e facevano carriera (in Tv e nei giornali) solo democristiani, comunisti e craxiani; i tg della tv commerciale venivano affidati solo a craxiani di provata militanza (Mentana, Fede e Liguori); nel regime bipartitico di quella che si è poi autodefinita Seconda Repubblica, hanno lavorato e fatto carriera solo berlusconiani da un canto e fedeli dei leader dell’“amalgama non riuscito” ex Pci-ex Dc dsall’altro.
Ora le cose sono cambiate. C’è la Rete, c’è il Movimento Cinque Stelle, c’è la falange renziana (di convinzione e più spesso di convenienza), c’è la crisi dei giornali, c’è la Rai che sembra tendere al mono-renzismo (ma si vedrà), c’è Mediaset che regge (non si sa sino a quando), ci sono Murdoch e La7 (dov’è sbarcato, dopo 18 anni di telegiornale berlusconiano, l’alfiere della libertà di informazione Mentana), si espandono le nuove piattaforme…
Vedremo cosa succederà, nei tempi medi e lunghi. Intanto la situazione continua ad essere quella che denuncia Anselmi, con la novità di una concentrazione fra la Repubblica e La Stampa (più Il Secolo XIX, i diciotto quotidiani del gruppo ex-Caracciolo, l’Espresso, ecc. ecc.) “impressionante”, anche per essere “passata sotto silenzio, nella sostanziale indifferenza”, da parte della politica, dei sindacati e di quella che sarebbe la nostra “opinione pubblica”. Con evidenti connivenze e cointeressenze, anch’esse vive e operanti da ben prima dell’avvento di Monti e del rifiuto da parte di Anselmi di continuare ad usare il loden comprato da Bardelli.