E’ l’ultimo attacco alla libertà di espressione in Turchia, denunciato anche dallo Human Rights Watch: all’alba del 15 marzo, tre professori universitari turchi sono finiti in manette, con l’accusa, mossa dal tribunale di Istanbul, di propaganda del terrorismo. Nel mirino la loro firma a una petizione redatta lo scorso gennaio, con la quale i tre accademici, insieme ad almeno altri 30 docenti già in prigione, hanno chiesto al governo dell’Akp di interrompere il massacro dei curdi in atto nel sud-est del paese. Tra i firmatari anche il noto linguista e filosofo Noam Chomsky. Alla prima petizione, parte del mondo accademico turco ha risposto con un altro documento che critica le scelte del Pkk dopo l’interruzione del processo di pace.
Ma per l’establishment di Tayyip Recep Erdogan, la petizione (la prima almeno) denigra e umilia lo Stato turco. Dopo le bombe e gli ultimi 37 morti ad Ankara, rivendicati dai Falconi del Kurdistan del Tak, un tempo sodali del Pkk e ora divenuti indipendenti, il messaggio arriva forte e chiaro in un Paese diviso nelle sue varie anime che il presidente non è riuscito a unire sotto la sua ala. Fuori dal mondo dell’università e dei partiti politici, la società turca chiede più sicurezza, e meno sangue per strada.
Chi frequenta l’ambiente universitario in Turchia, come Hüsrev Tabak, ricercatore dell’università Recep Tayyip Erdogan di Rize, nel nord-est del paese, ci descrive una situazione difficile. “I testi delle due petizioni di questi mesi sono problematici e poco oggettivi. Al limite dell’accettabile”, ci dice. “Chi ha sottoscritto il primo documento dimentica che si tratta di un atto politico contro il presidente, che nulla avrebbe a che vedere con l’interruzione del processo di pace o con i diritti dei curdi”.
Hüsrev Tabak dice di non avere problemi a fare il suo nome, a comparire liberamente anche su articoli della stampa straniera dicendo ciò che pensa. Eppure lo afferma chiaramente: “Criticare il presidente Erdogan in Turchia è possibile, ma schierarsi al fianco dell’opposizione di sinistra o secolarista vuol dire divenire facile preda dell’oppressione del governo. Gli ambienti islamisti o nazionalisti ne sono più difficilmente vittima”. Hüsrev non parla di una minaccia, di leggi scritte contro la libertà di espressione e di stampa in Turchia. Dice piuttosto che nel suo paese si respira la sensazione, se si vuole ancora più subdola, che gli oppositori diventino facile mira della repressione governativa nel caso in cui la loro voce esca fuori dal coro della propaganda e del plauso alle politiche dell’Akp.
“In Turchia è la stessa Costituzione a dirlo”, aggiunge Özgür Tüfekçi, ricercatore alla Karadeniz Technical University. “E’ un reato umiliare lo Stato, e il governo ha stabilito che sottoscrivere la petizione di gennaio corrisponde a denigrarlo”. Diverso è poi, per Özgür, discutere se la pur giovane Costituzione del 1982, emendata nel 1995, sia valida e garantisca la salvaguardia della libertà di espressione. “In Turchia – ci dice – è reato anche rivelare segreti di Stato”. Il riferimento è a quanto accaduto ai giornalisti Can Dundar e Erdem Gul del quotidiano Cumhuriyet. “Perché non gli è stato garantito quanto fatto per Julien Assange?”, si chiede Tüfekçi.
“C’è tanta ipocrisia sulla vicenda degli arresti e su quanto sta accadendo in questi mesi in Turchia”, ci dice invece Rahman Dağ, ricercatore di origine curda alla Adıyaman University. “Oggi sembra andare di moda essere anti-Erdogan. Ma questo non è un atteggiamento costruttivo, né giova all’identità curda. Non fa altro che alimentare il fuoco dello scontro. La verità è che manca una reale opposizione al potere dell’Akp”. Da curdo, Rahman rivendica quanto non è stato fatto per il suo popolo. “Il Pkk ha fallito nella negoziazione con l’Akp. Eppure, oggi siamo giustamente tutti uniti contro gli attacchi terroristici, quando dovremmo considerarli anche una diretta conseguenza della politica della porta aperta di Erdogan”. E poi aggiunge: “Se c’è libertà di parola ed espressione in Turchia? Certo, ma le leggi non aiutano a garantirla”.
L’ambiente universitario turco è dunque frammentato. L’unica sensazione che fa da collante, e che lo avvicina al mondo comune, fuori dai numerosi atenei del paese, sono la paura e la richiesta di maggiore sicurezza, divenute ormai parole d’ordine dopo gli attentati ad Ankara e nel resto del paese. Al coro si aggiunge la decisione dell’Ipsa (l’International Political Studies Association), che, sempre per questioni di sicurezza, ha scelto di non organizzare più a Istanbul la sua conferenza annuale, trasferendola in un’altra capitale europea. Quella di luglio sarebbe stata la 24esima edizione della sua conferenza internazionale, che annualmente raccoglie voci da tutto il panorama accademico internazionale.
Il mondo accademico turco non ha accettato di buon grado il cambiamento: contro la scelta è nata un’altra petizione, sottoscritta anche da professori, dottorandi e ricercatori italiani. Il fronte dunque si allarga anche al di fuori del Paese della Mezzaluna, popolato da voci anti-Erdogan o semplicemente preoccupato per l’escalation terroristica. La direzione, però, non è affatto univoca.