Provate a guardare i volti dei terroristi di Parigi e di Bruxelles. In questi giorni, dopo l’attacco nella capitale belga, mi sono soffermato più di una volta a osservare i loro visi, i loro occhi, a leggere i loro nomi e le loro storie. Soprattutto la loro età: Bilal Hadfi, 20 anni; Ahmad al Mohammad, 25 anni; Salah Abdeslam, 26 anni; Mohammed Aggad, 23 anni; Hamza Attou, 21 anni.

Pochi di loro superano i 30 anni. Molti come sappiamo sono cresciuti in Europa. Forse hanno frequentato le nostre scuole.

Salah Abdeslam, catturato nei giorni scorsi in Belgio, è nato a Bruxelles il 15 settembre 1989 da genitori immigrati entrambi in possesso di nazionalità francese, ma provenienti da Bouyafar, piccolo villaggio del Marocco. Ha fatto il meccanico in città. Aveva aperto un bar.

Sono i figli della seconda generazione, non sempre integrati, abbandonati dal sistema d’istruzione.

Musulmani in piazza 675

E’ chiaro e scontato: questa non è una ragione per compiere atti di violenza ma da lì dobbiamo partire, dal comprendere.

Una delle possibili (non uniche) risposte al terrorismo è investire sulla terza generazione, prima che sia ancora una volta troppo tardi. Anche in Italia dove i dati del report sull’ “Integrazione scolastica e sociale delle seconde generazioni”, diffusi nei giorni scorsi dall’Istat,  ci consegnano la fotografia di ragazzi che non si sentono parte di noi, che sono “respinti” dalla nostra scuola, che non frequentano i nostri spazi.

La quota dei ragazzi stranieri (nati in Italia o arrivati dopo i 10 anni) delle scuole secondarie che si sentono italiani è solo del 38%. Il 33% si sente straniero e poco più del 29% preferisce non rispondere. Interessante vedere come tra i ragazzi arrivati dopo i dieci anni quasi il 53% si senta straniero a fronte del 17% che dichiara di sentirsi italiano.

Questo è il primo punto su cui fermarsi a riflettere.

Il secondo punto riguarda il loro inserimento sociale. Perché da lì dobbiamo partire, dalle frequentazioni di questi ragazzi al di fuori dell’aula dove sono costretti a starci.

Per i ragazzi di origine straniera si rilevano differenze sostanziali rispetto agli italiani: mentre soltanto il 9,3% dei “nostri” ragazzi delle scuole secondarie di primo grado ha dichiarato di non frequentare i compagni di scuola al di fuori dell’orario scolastico, per gli stranieri la percentuale sale al 21,6%. La quota di quanti frequentano coetanei italiani decresce tra coloro che sono arrivati in Italia successivamente al compimento del sesto anno di età.

E la scuola che fa? Respinge, boccia, non ha gli strumenti e le risorse per integrare. Il percorso dei ragazzi con background migratorio, soprattutto quello dei nati all’estero, può essere spesso accidentato e presentare diverse difficoltà.

I dati del Miur mettono in evidenza che per gli stranieri la quota di non ammessi alla classe successiva della scuola secondaria di primo grado (8,7%) è più elevata rispetto agli italiani. L’indagine dell’Istat conferma che gli alunni stranieri, compresi quelli nati in Italia, al termine dell’anno scolastico vengono respinti con maggiore frequenza rispetto ai nostri figli (14,3% contro il 27,3%).

Dati, numeri che non possono restare solo sulla carta. Le indagini statistiche non possono essere lette solo dagli addetti ai lavori ma vanno “tradotte”, diffuse agli educatori, agli insegnanti, a chi ha il compito in questo Paese di attuare una politica dell’inclusione reale e non illusoria. Fa bene il premier Matteo Renzi a dire, all’indomani dell’attacco a Bruxelles, “Abbiamo bisogno di militari ma anche di maestri” ma alle parole non possono che seguire i fatti.

Queste percentuali devono cambiare. Ci sono disegni più grandi di noi dietro gli attacchi terroristici ma una delle risposte possibili che possiamo dare, a partire da ciascuno di noi, è quella di integrare non di escludere.

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