La somiglianza c’era: “Mi fermavano per strada e mi confondevano sempre con Jannacci: ‘Il suo ultimo disco è stupendo’. In principio negavo, ma nel tempo, per comodità, mi abituai a mentire. Posavo per le foto, facevo gli autografi, mi spendevo nelle dediche ‘In scarp de tennis, tuo Enzo'”. “La realtà – dice Angelo Guglielmi – vive di incoerenze” e invecchiando anche i misteri lasciano spazio al raziocinio. “Da giovane non pensavo che Feltrinelli fosse salito veramente su quel pilone a Segrate, così come non credevo a ciò che su Pasolini e sull’Idroscalo ci era stato detto, ma alla fine qualcosa del genere deve essere accaduto e forse in entrambi i casi è andata proprio come ci hanno raccontato”. A una settimana dagli 87 anni: “Essere arrivato fin qui è incredibile”, ricordare chi si è stati è un esercizio di semplicità: “Mi sono trovato al posto giusto nel momento giusto”. Scrittore, critico letterario, direttore di una celebrata stagione di Rai 3. Sul tavolo, tra labrador ai piedi e timide primavere alla finestra, decine di libri, appunti, pezzi di carta: “Stavo votando per i David di Donatello e nonostante abbia apprezzato “Non essere cattivo” e venga da Arona, la stessa brutta cittadina in cui nacque Caligari, ho scelto il film di Matteo Garrone“.
Perché Garrone?
Nell’assoluto grigiore nazionale contemporaneo, esteso senza distinzioni a pittura, musica, letteratura, teatro, cinema e tv, Garrone prova sempre a superare il conformismo.
Si muove in solitudine?
Da quanto tempo non abbiamo un Berio, un Bene o un Gadda? C’è una perdita di energia. Una cultura che incapace di qualsiasi ribellione riesce soltanto a riesumare un lontano ieri.
Viviamo in un eterno rimpianto?
Il postmoderno è questo: rifare il passato. La scorciatoia semplice: ‘Il presente è fuggito? Riproponiamo l’antico’. Idee nuove, zero.
Nella sua Rai 3 qualche idea c’era.
Craxi e De Mita, i padroni del Paese, avevano deciso di concedere ai comunisti una rete minore ancorata al 2 per cento di share. Biagio Agnes, una volpe, una vera lenza, tradito dal duo Carrà-Baudo in fuga verso Mediaset, mi lasciò fare. ‘Sei libero’. Il problema a quel punto divenne interamente mio. ‘Posso fare tutto – mi dissi – ma cosa esattamente?’. Cominciai domandandomi cosa mancasse alla tv italiana.
E cosa si rispose?
Che mancava un’informazione seria sulle condizioni del Paese. Fino a metà anni ’80 la tv era stata un nastro trasportatore. Portava nelle case romanzi, teatro, musica e film senza mai raccontare il contesto sociale né sfiorare il contatto con le persone. ‘Farò il contrario’, giurai. E fui criticatissimo, anche da quelli che stimavo. Peccato aver smarrito il carteggio con Strehler.
Vi scrivevate?
Lettere aspre. Strehler non capiva che la tv è una disciplina linguistica con regole proprie e che riempire il palinsesto con il teatro significava parlare straniero. Adoro Beethoven, ma non mi è mai venuto in mente di metterlo in prima serata. Ci sono i luoghi giusti. I tempi giusti.
La sua Rai3 era il luogo giusto per sperimentare?
Aveva una sua energia interiore. Viveva di sé, senza chiedere niente a nessuno. Dicono che sia stato Pasolini a scoprire il palazzo, ma non è vero. È stato Chiambretti. Il suo postino a colloquio con Cossiga, infiltrato al ricco compleanno di un cardinale o mandato a fare in culo dal ministro Gaspari era di una potenza assoluta. C’è poco da fare: le parole non hanno mai la stessa forza delle immagini.
Chiambretti è una sua invenzione.
Circuì la segretaria con l’inganno e si infilò anche nello studio di Andreotti. Indugiava davanti agli schedari, diceva e non diceva. Cinque minuti e arrivarono i carabinieri: ‘La violazione di domicilio è un reato’. Piero si scusò e batté in ritirata.
Qualcuno si arrabbiava.
Con Staino e la banda di Teletango qualche problema ci fu. Gli avevo dato 15 minuti settimanali a tema libero.
Cosa accadde?
In uno sketch, Craxi andava a trovare un gruppo di zingari. Faceva il comizio, abbracciava tutti e poi dopo averli derubati risaliva in macchina per dividere la refurtiva con gli altri socialisti. Mi chiamò Manca, incazzatissimo. Io il filmato non l’avevo visto. E lo ammisi.
Con Samarcanda nacque il talk-show politico.
Il genere è logoro, sono diventati tutti uguali, ne farei sopravvivere uno solo. L’altra sera ho fatto la spola tra DiMartedì e Ballarò. Si discuteva di Bruxelles. Già sapevi cosa avrebbero detto. C’era quell’aria luttuosa, quell’atmosfera di pena, una cosa intollerabile. Peccato per Giannini. Floris è un giornalista televisivo. Giannini invece è un bravo giornalista.
Augias, Leosini, Lerner, Santoro. Nella sua rete c’erano molti giornalisti.
A parte la conferma di Barbato, fondamentale, mi misi alla ricerca di nuovi conduttori. Inventare fu anche una necessità. In magazzino, politica estera a parte, c’era poco.
Politica estera?
Straordinari documentari sul Vietnam di Colombo, Levi e Barbato soprattutto. Reperti dell’epoca fanfaniana, molto antiamericani come era ovvio.
Perché era ovvio?
Perché Fanfani detestava gli americani, troppo morbidi con i sovietici e da filopalestinese odiava anche gli ebrei. Nemici da sempre, nei secoli dei secoli.
Da critico letterario i nemici non le sono mancati.
C’era chi, penso a Moravia, accettava le critiche con spirito allegro ed era così intelligente da fottersene delle aggressioni che gli riservavo e chi come Pasolini che era dolce, ma non simpatico, reagiva con insofferenza. Mi serviva un suo brano per un’antologia e gli telefonai. Mi subissò di improperi: ‘Lei mi odia, perché mi cerca?’.
La riempì di insulti?
No. Non adoperava molte parolacce, neanche nei suoi romanzi. Era della scuola di Arbasino. Sulla pagina, il vaffanculo è bruttissimo. Oggi non c’è libro, anche casto, che non sia ricco di un ‘cazzo, cazzo, cazzo’ ogni due righe. Se i nostri mesti narratori ricorrono al turpiloquio per stupire siamo messi veramente male.
Moravia e Pasolini non le piacevano.
Moravia aveva scritto un solo bel romanzo, Gli indifferenti, e lo aveva fatto inconsapevolmente. Pasolini anche peggio. Ragazzi di vita era antropologia linguistica e Una vita violenta era tremendo. Non a caso il terzo capitolo della trilogia romana, previsto, non vide mai la luce. Moravia si accorse del fallimento letterario e lo trascinò con sé in India.
Lei salvò Petrolio.
L’unico vero romanzo. Un insieme di riflessioni, pezzi di giornale, note di cronaca. In Petrolio, non facendosi condizionare dai limiti narrativi, Pasolini fece finalmente entrare il mondo nelle pagine.
Un romanzo incompleto.
Com’era incompleto il Pasticciaccio. Un merito più che una colpa. Il luogo in cui Pasolini ha risolto la sua ambizione – diventare una stessa cosa con la realtà – è stato il cinema. Salò è un film incredibile. Pezzi di corpi, lembi strappati, sofferenza. Vedevi lo scempio. Ti squassava. Come nel neorealismo di De Sica e Rossellini che amavamo perché ti faceva toccare le cose, il Pasolini da set era materialista. Senza i crepuscolarismi, senza il naturalismo di stampo ottocentesco, i vibranti slanci di retorica fasulla, l’intimismo sgradevole che albergava in tutto quello che consideravo come la peste: Metello di Pratolini o La ragazza di Bube di Cassola.
Qualcuno sostiene che in Salò Pasolini abbia prefigurato l’addio.
Non credo alle prefigurazioni. Gli è capitato di andarsene in quel modo, ma viveva in maniera pericolosa e non mi meravigliai. Poteva accadergli qualsiasi cosa, persino di non morire.
Lei ama il paradosso.
Forse perché ho visto di tutto. Guerra mondiale, ’48, boom, ’68, terrorismo, caduta della Prima Repubblica e bugie della Seconda. Da ragazzi pensavamo di dover rinnovare in toto la cultura. Il Paese si stava trasformando, ma latitavano le produzioni della mente: ‘Cambia tutto – ci dicevamo – perché non dovrebbe capovolgersi anche la letteratura?’. Ci pareva essenziale. Eravamo stupiti che non accadesse.
Il Gruppo 63 nacque anche per questo?
Fummo accusati di arrivismo: ‘Ecco i nuovi che smaniano per prendere il potere’. Era falso. Il Gruppo 63 nacque quasi senza che ce ne accorgessimo. Incontrai un amico a Roma, in piazza Cavour: ‘A ottobre saremo a Palermo per parlare di letteratura’. Andai. Esserci mi sembrò semplicemente giusto. Volevamo un mondo diverso da prima e quindi anche i nostri gesti dovevano marcare uno scarto. I parametri di giudizio d’altra parte erano allucinanti.
Esempi?
Gadda era considerato un belletrista. Un raffinato che scriveva bene, un calligrafico. Era il contrario. La sua prosa scavava, rovesciava la realtà per rivelarne le ombre, adoperava un linguaggio contaminato dai dialetti e da momenti tragici, lirici e teorici. Era un operaio di una lingua che trasformava in uno strumento straordinario, non certo l’incantato ammiratore di se stesso. Tra l’altro era lontanissimo dal professare la religione degli scrittori delle epoche successive.
Ovvero?
L’autopromozione di se stessi. Gadda era di un’ingenuità assoluta. Viveva nell’eterna preoccupazione che le donne volessero sposarlo o che qualcuno parlasse male di lui. Quando uscì Hilarotragoedia di Manganelli, bussò alla porta di Giorgio: ‘Mi stai prendendo in giro?’. L’aveva letto come parodia della sua narrativa, della sua via Merulana, della sua persona.
Arbasino è stato importante?
Fa una rivoluzione: porta il parlato nelle pagine. Un lampo di modernità poi ampiamente imitato. I nostri poveri narratori si ravvivano inserendo pezzi di parlato. Altri grandi contemporanei sono stati Celati e Tondelli.
Su Rimini in verità lei fu molto duro.
Lì Tondelli aveva perso per strada il linguaggio di Altri libertini. Non era colpa mia. Al limite sua.
Di linguaggio e sperimentalismo si occupò fin da giovane, sul Verri.
Con i suoi conti sempre precari, il Verri fu salvato da Feltrinelli. Giangiacomo si rivelò leggero in alcune scelte. Ma fu un uomo straordinario. Costruì una casa editrice dal nulla e si giocò ricchezze in imprese che gli restituirono più grane che gloria e profitti.
Da direttore qualche grana toccò anche a lei.
I sette anni di Rai 3 arrivarono in un contesto incredibile e irripetibile: tra il crollo del Muro di Berlino e quello dei partiti. Il mondo si stava rovesciando. Noi accompagnammo lo sgretolamento e in qualche modo lo vaticinammo. Qualcuno, nel partito e non solo, ci rimproverò la sconfitta del ’94. Repubblica fu durissima: ‘Rai3 è tra i principali motivi della disfatta’.
Lei ci ha mai creduto?
Mai. Le accuse erano ridicole. La verità è che sono stati dei coglioni. Avevano già vinto. Davanti a loro c’era un’autostrada. Le scelte di Occhetto ebbero un ruolo. Dopo la caduta del comunismo bisognava cambiare, ma il rinnovamento occhettiano disarticolò il partito e lo indebolì. Creò smarrimento e disaffezione. Berlusconi ebbe gioco facile. Pensò: ‘Prendiamoci tutti i partiti decotti e combattiamo contro l’unico che ha ancora qualcosa di vivo’. E vinse. Come in Gogol, c’erano in giro solo anime morte. Berlusconi le ingaggiò. Le comprò. Le pagò tutte.
Se al posto di Occhetto ci fosse stato D’Alema?
È intelligente, ma è un uomo di potere molto affezionato a se stesso. Non so se avrebbe fatto meglio, anzi. Posso dire però che col senno di poi si è capito perché ha vinto Berlusconi.
E perché ha vinto?
Perché sapeva ottenere cose incredibili mischiando illegalità assoluta, teatralità e senso degli affari. Berlusconi era figlio di un disgraziato. Di un direttorino di banca. Anche se non bisogna chiedersi da dove vengano i soldi perché da dove vengono è chiarissimo, era impossibile non provare per Berlusconi una certa ammirazione. Era difficile non odiarlo senza provare una perversa simpatia.
L’ha incontrato spesso?
Lui è un furbone. Cerca di rubare ogni cosa. Si era messo in testa di portarmi a Mediaset. Finsi di starci e rilanciai: ‘Va bene, ma solo se con me viene tutta la rete’. Incredibilmente sul tema si tenne più di una riunione. Nell’ultima, a casa di Costanzo, c’erano anche Confalonieri, Galliani e quello sciagurato di Dell’Utri. Poi non se ne fece nulla. Sapevamo che era impossibile.
Rai 3 era chiamata Telekabul.
E non mi dispiaceva, come non dispiaceva a Curzi. Tranne Montanelli e forse Scalfari, o si è grandi direttori o grandi giornalisti. Sandro probabilmente non era un grandissimo giornalista, ma era un direttore enorme. Le sue scalette condizionavano la politica. Erano seguitissime e temute. In un primo tempo, di certi suoi toni rozzi mi vergognavo. Sbagliavo. Erano perfetti.
Come arrivò alla direzione di Rai 3?
Il mio nome lo suggerì Veltroni. Anche se scrive i romanzi che scrive, Walter è un uomo curioso e intelligente. I romanzi non sono la sua partita.
E i film?
I bambini insomma. Meglio quello su Berlinguer. Che gli adolescenti non sappiano chi vive al Quirinale un po’ impressiona.
La Rai di oggi?
È un’azienda morta. Non produce nulla. Non crea lavoro. Esiste solo per la sua stessa sopravvivenza. In Italia gli operatori di cinema e tv, Rai compresa, sono 47.000. In Francia il doppio. In Inghilterra più del triplo. Nonostante questo, la Rai ha un indice d’ascolto più alto di Mediaset, gli sponsor pagano bene e quindi nessuno si azzarda a inventare niente. Ci si appoggia a quel che c’è già e che funziona perfettamente come Sanremo e si comprano format esteri. La Rai non ha altra preoccupazione che fornire un pasto indigesto che forse piace proprio perché è indigesto.
La qualità?
Esclusi Montalbano e il vecchio La piovra, sceneggiati con cui la Rai è uscita dalla miseria dei propri confini, le fiction degli ultimi decenni un po’ fanno pena e un po’ fanno ridere. Almeno costano poco.
E le nomine?
Potevano essere migliori, ma non sono il punto. Chi c’è ora, Bignardi inclusa, non potrà fare nulla di meglio di quello da cui siamo già offesi. Finché la Rai non si trasforma in una grande azienda di produzione culturale, puoi chiamare a Viale Mazzini anche Gesù ma non risolvi niente.
In Cda c’è il suo amico Freccero.
Il Cda non conta nulla. A Carlo dico sempre che sa parlar bene, ma non sa fare. Lui si incazza, però è vero.
Antonio Campo Dall’Orto?
L’ho incontrato a un dibattito, mi è parso un uomo di nessun interesse e di totale inconsistenza. Non solo povero di idee, ma anche un po’ gradasso.
Renzi gli ha dato pieni poteri.
Quando mi hanno detto che il premier, un tipo che io considero furbo, voleva farne l’elemento di punta ho pensato a una balla. Era vero. Con la riforma, Campo Dall’Orto può far molto. Sempre ammesso che lo sappia fare.
Da Il Fatto Quotidiano del 27 marzo 2016