Il Federal Bureau of investigation non ha più bisogno della collaborazione di Apple per accedere ai dati conservati nell’Iphone di uno degli autori della strage di San Bernardino e non ne ha più bisogno perché ha ottenuto quello che voleva grazie al supporto di un terzo.
Lo ha reso noto una manciata di ore fa il Dipartimento della Giustizia americano chiedendo la definitiva interruzione del procedimento giudiziario che per settimane ha visto contrapposti –probabilmente come non era mai accaduto sin qui – il Governo di Barack Obama e i giganti della Silicon Valley, Apple in testa.
Si chiude così senza vincitori, né vinti una vicenda che ha rappresentato – più che per l’unicità o la complessità della questione in sé per la palese volontà dei suoi protagonisti di trasformarla in una battaglia politico-mediatica – l’occasione per avviare un confronto senza precedenti sul difficile equilibrio tra privacy e sicurezza.
La parola d’ordine ora è rifuggire ogni semplificazione. Sarebbe allo stesso modo sbagliato concludere che ha vinto il Federal Bureau of Investigations perché ha ottenuto quello che voleva nonostante il rifiuto di Apple o che ha vinto quest’ultima perché è riuscita ad opporre al primo un “gran rifiuto” ed a presentarsi al mondo come paladina globale della privacy.
Ma, soprattutto, il punto è un altro. Non chi ha vinto ma chi ha perso.
Ed a perdere, sin qui, siamo stati tutti.
Miliardi di cittadini di centinaia di Paesi perché, sin qui, l’unica certezza di una vicenda dai contorni grigi e sfumati è che la nostra privacy si è mostrata drammaticamente fragile.
Non solo e non tanto perché il Federal Bureau of investigation, alla fine, è riuscito, in un modo o nell’altro, a penetrare in quel guscio digitale che Apple aveva difeso ad oltranza l’impenetrabilità e l’inespugnabilità ma perché la cornice normativa, le regole ed i principi che dovrebbero garantire la nostra privacy si sono mostrati ambigui, confusi e interpretabili per arrivare ad una conclusione o a quella diametralmente opposta.
Ordini e contrordini, conferme e smentite, in questa storia, si sono succedute con il ritmo di un thriller d’azione di successo ed i media di mezzo mondo hanno fatto il resto, lasciando rimbalzare solo frammenti scomposti di un puzzle incredibilmente complesso nel quale ogni tessera deve essere appoggiata all’altra con infinita delicatezza per scongiurare il rischio di logorare i lembi fragili posti ai confini tra la fine di una libertà e l’inizio di un’altra.
“Solo Apple può garantirci l’accesso a quei dati e quei dati sono essenziali per garantire al mondo maggiore sicurezza”, diceva il Governo di Barack Obama, per bocca di una delle agenzie di intelligence più potenti di tutti i tempi, solo una manciata di settimane fa.
“Anzi no, grazie ad un terzo, abbiamo avuto accesso ai dati che cercavamo”, ha scritto ieri la stessa Agenzia.
“Se si aprisse una porta sul retro dei nostri dispositivi, la privacy di centinaia di milioni di persone sarebbe a rischio”, ha dichiarato, più e più volte, l’azienda della mela morsicata nell’opporsi all’ordine del Giudice chiesto ed ottenuto da Fbi.
E oggi che appare sicuro che qualcuno, in giro per il mondo – probabilmente un soggetto privato – sembra in grado di entrare ed uscire dai nostri iphone senza eccessive difficoltà e può farlo “in nome della legge”?
Come dovremmo considerare il nostro diritto alla privacy? È al sicuro sotto il profilo normativo prima e sotto quello tecnologico poi o è – come appare – in balia degli eventi?
Ed a rendere ancora più preoccupante una situazione nella quale la confusione è già grave, si aggiunge il fatto che le regole della partita in questione sono quelle degli Stati Uniti d’America ovvero quelle ormai divenute regoli pressoché globali perché richiamate nelle condizioni generali di servizio e nei termini d’uso dei giganti della Rete che forniscono i loro servizi a miliardi di persone e cittadini in tutto il mondo.
E si tratta delle stesse regole che, a leggere lo scambio di lettere dei giorni scorsi tra il Governo americano e le Istituzioni dell’Unione europea – quello che per intenderci che il marketing istituzionale euro-americano ha già battezzato “Privacy Shield”, erede del vecchio “Safe Harbour” – dovrebbero garantire il trasferimento transoceanico dei dati personali di centinaia di milioni di cittadini europei.
Una cosa è sapere che i nostri diritti fondamentali sono affidati a regole certe e condivise nella comunità internazionale ma talvolta difficili da applicare, complice la fluidità delle dinamiche della società nella quale viviamo, una cosa è saperli governati da regole confuse e non condivise nella società globale.
Il primo è un contesto nel quale dobbiamo rassegnarci a vivere in un’epoca di così profondi cambiamenti, il secondo un contesto nel quale non possiamo – e non dobbiamo – rassegnarci neppure a sopravvivere.