In un articolo comparso su Il Manifesto del 26 Marzo, Giorgio Ferrari analizza con competenza i punti deboli del sistema nucleare in Belgio e l’inquietante pericolo che le falle del sistema di sicurezza di Bruxelles siano estese alle centrali e agli impianti di produzione di isotopi radioattivi. Il Belgio è un paese fortemente nuclearizzato (oltre metà dell’elettricità viene da impianti a fissione di uranio) e la conferma di una intensa e organizzata attività di cellule terroristiche nel suo territorio, accostata alle voci di una ipotesi di attentato alle sue centrali, è notizia che fa paura. Siamo di fronte ad una eventualità estrema, che nessun sostenitore della scelta nucleare aveva mai voluto mettere in conto, ma che le nefandezze dell’Isis materializzano come scenario possibile.
A conferma della perversa attenzione del terrorismo alla filiera atomica, c’è un filmato sequestrato agli attentatori di Bruxelles che ritrae un funzionario di alto livello ripreso da una telecamera per carpire informazioni scientifiche nell’ipotesi evidente di impiegarle. Una eventualità – come affermato – estrema, ma che impone una valutazione realistica e finora rimossa del rischio catastrofico, che peserà sicuramente sui costi per la sicurezza dell’energia da fissione e sull’ulteriore sua militarizzazione.
In territorio belga nelle 7 unità in funzione (4 a Doel, sulla foce della Schelda; 3 a Tihange sulla Mosa) si sono registrati recentemente incidenti di una certa gravità. I reattori risalgono agli anni ’70 e non hanno certo brillato negli “stress test” che la Ue ha condotto sul continente dopo Fukushima. Tra le Fiandre e la Vallonia il ciclo nucleare è ben rappresentato: a Mol, Dessel e Fleurus si maneggiano sostanze radioattive molto pericolose (dai rifiuti, al combustibile fresco, agli isotopi radioattivi per il settore industriale e medico-farmaceutico, esportati in tutto il mondo). D’altra parte, in giro per il pianeta c’è una quantità enorme di sostanze radioattive, ormai considerate di normale impiego, che sfuggono ai controlli di legge e non di rado si trovano abbandonate in depositi improvvisati e non sorvegliati, come accade anche in Italia. Dove, peraltro, il governo continua a tacere sulla questione del futuro deposito delle scorie.
In uno studio dell’Università del Texas si attesta che gli stessi reattori nucleari Usa – anche a più di dieci anni dall’attacco alle Torri Gemelle – rimangono vulnerabili alle minacce terroristiche, che costituiscono il pericolo maggiore di incursione nei dispositivi di sicurezza degli impianti privati, meno protetti delle strutture governative per affrontare sabotaggi o rischi di furto di materiale fissile. Questo perché un impianto dato in concessione è progettato per gestire la cosiddetta “minaccia di progettazione di base”, collegata per lo più a eventi naturali straordinari e al rischio di degenerazione del processo radioattivo, mentre non rientra nel suo budget di funzionamento il costo di un pattugliamento militare continuativo.
Non si include, ad esempio, la possibilità che un intruso possa disattivare i sistemi di sicurezza, svuotare la piscina di raffreddamento per esporre i rifiuti radioattivi, o utilizzare granate per superare “in loco” le difese di un’apparecchiatura sofisticata. Anche se le leggi della fisica precludono che un reattore si trasformi in un’arma nucleare – essendo troppo grande per produrre la densità e il calore necessario per creare una esplosione come quella di una bomba atomica – il tentativo di provocare la fusione del nucleo si potrebbe totalmente escludere solo se fossero garantiti sistemi alternativi per fornire refrigerante e il ritiro assicurato in qualsiasi condizione delle barre di combustibile dal processo di reazione a catena.
Mentre è impossibile sopravvivere al furto di combustibile anche esaurito e, quindi, approntare al di fuori di un consistente apparato tecnico-scientifico una bomba atomica, una organizzazione terroristica con competenze e risorse sufficienti potrebbe, senza difficoltà insuperabili, utilizzare materiali nucleari assemblati con esplosivi convenzionali per far brillare una bomba “sporca”.
Sulla base di queste considerazioni, la vulnerabilità degli impianti nucleari del Belgio ad opera dell’Isis deve preoccupare in particolare per la produzione locale di isotopi radioattivi e il ritrattamento di scorie. Processi molto esposti e particolarmente preoccupanti in un paese con una storia di carenze nella sicurezza presso le proprie strutture industriali, un apparato di intelligence debole e una rete terroristica profondamente radicata. Il sistema informatico dell’agenzia nucleare belga, come afferma il New York Times del 25 Marzo, è stato violato in questi mesi: ragione in più perché la collaborazione di tutti i Paesi europei vada nella direzione di una tutela dal rischio nucleare nell’emergenza terrorismo e si consideri la fuoriuscita dall’atomo su scala continentale un contributo alla svolta energetica che l’umanità sta costruendo faticosamente, a costi economici, sociali e ambientali meno insopportabili.