Un emendamento del senatore Paolo Galimberti (Forza Italia) prevede che il proprietario dell’impianto, compagnia petrolifera o piccola azienda privata, dovrà sostenere i costi di decontaminazione solo “in caso di riutilizzo dell'area”. Ma molti di quei terreni resteranno inutilizzati. Il rischio è che debba pagare lo Stato
Sta passando in sordina un vero e proprio blocca-bonifiche per gli impianti di carburante che chiudono e devono essere smantellati, con tutti i rischi connessi per l’ambiente e la salute. La commissione Industria del Senato ha approvato martedì un emendamento al ddl Concorrenza del senatore Paolo Galimberti (Forza Italia) dove si legge che “in caso di riutilizzo dell’area, i titolari di impianti di distribuzione dei carburanti procedono alla rimozione delle strutture interrate e alla bonifica del sito in caso di accertata contaminazione“. Tradotto: il proprietario dell’impianto, compagnia petrolifera o piccola azienda privata, non dovrà sostenere i costi di bonifica del suolo al momento della chiusura ma solo “in caso di riutilizzo dell’area”, che potrebbe avvenire domani come tra vent’anni, trenta o anche mai. Un escamotage che recepisce le richieste del settore petrolifero e permette di lasciare sotto terra i serbatoi, che possono diventare con il tempo delle vere e proprie bombe inquinanti, contaminando il territorio e le falde acquifere vicine.
E’ facile infatti pensare che molti terreni dove ora sorgono gli impianti in dismissione non verranno mai riutilizzati: parecchi sono situati in posti poco strategici, come su marciapiedi a ridosso delle strade. Quindi, se sotto il suolo c’è una contaminazione, lì rimane. Ma anche qualora il sito venisse riutilizzato (chissà quando), alcuni problemi potrebbero comunque sorgere. Ad esempio, chi paga la bonifica se la società che gestiva l’impianto è fallita? E ancora: se il proprietario del sito è il Comune (proprietario della strada o del marciapiede su cui era l’impianto) e dopo anni decide di utilizzarlo in altro modo (magari perché vuole allargare la sede stradale o perché vuole destinare quell’area a verde) ma non trova più l’ex-titolare dell’impianto, sarà l’ente è pubblico a sobbarcarsi l’onere? Magari a carico della collettività?
Ora alcuni parlamentari stanno lavorando per trovare una soluzione di compromesso che venga incontro alla lobby petrolifera e tuteli al tempo stesso l’ambiente. L’ipotesi più gettonata consiste nell’inserire un termine all’obbligo di bonifica. “In Aula presenteremo la proposta di imporre il termine di tre anni per riqualificare il territorio. Altrimenti, dopo tanti anni la ditta che deve fare la bonifica potrebbe non esserci più e a quel punto chi pagherà?”, ha spiegato al fattoquotidiano.it il senatore dei Conservatori e Riformisti, Luigi Perrone, che aggiunge: “E’ vero, il problema bonifiche c’è, ma se la norma passasse così è come firmare una cambiale in bianco”.
L’emendamento Galimberti accoglie pienamente le richieste del settore petrolifero, che mesi fa aveva raggiunto un accordo in cui si prevedeva la stessa cosa. Le compagnie e soprattutto le piccole aziende private spingono infatti da tempo per una semplificazione e una riduzione dei costi per la riqualificazione degli impianti smantellati. Molti distributori rimangono in vita, anche se non più non redditizi, solo perché gli oneri per la chiusura sono troppo altri. Questo è uno dei motivi per cui in Italia non si riescono a diminuire i punti vendita, razionalizzare il settore e quindi azzerare il cosiddetto “stacco Italia” (il prezzo più alto che gli italiani pagano per benzinae gasolio rispetto al resto d’Europa). Bloccando le bonifiche, invece, chiuderanno 3mila impianti con la cessazione dell’utilizzo di circa 10.000 serbatoi interrati, sostiene Assopetroli, l’associazione dei retisti privati che più ha spinto per l’emendamento Galimberti.