“Alla domanda di Fabio Fazio, un po’ di anni fa: «Perché continui a fare il capostazione?» lui aveva risposto: «Sai, qui a Cuneo se uno ti chiede cosa fai e rispondi “il cantante”, ti dicono “no, ma come lavoro?”». Era così Gianmaria Testa, uno che anche quando ad applaudirlo erano platee nobili, internazionali, non ha mai abbandonato la semplicità, il suo venire da una provincia, quella di Cuneo, su cui si ironizza spesso, i cui abitanti sono visti come sempliciotti. Lui era un raffinato “burattinaio di parole”, per usare un’espressione di un suo collega, un impressionista della frase. I suoi testi erano pennellate apposte qui e là, che prese una per una potevano sembrare senza senso, ma che unite da un sottile filo musicale e appoggiate sulla voce bassa e calda, diventavano affreschi bellissimi, profondi, mai banali.
Ricordo che un giorno glielo dissi, mentre pranzavamo sulla terrazza di una trattoria nelle sue amate Langhe, dove si era trasferito, lontano da ogni centro, appunto, e lui mi rispose abbassando gli occhi, come a schernirsi: «So fare questo, cosa vuoi…». Lo disse in piemontese, dialetto che amava parlare e che ha usato per una canzone struggente e bellissima, La cà sla colin-a, in cui una donna guarda quella casa su in alto, dove sogna di andare a vivere, ma non può che guardarla da lontano, e pensare che è stato suo padre a costruirla. Ne aveva ancora la calce sotto le unghie quando è morto e quei signori che posseggono la casa non sembrano nemmeno darle troppa importanza, tanto…
Una storia di povertà, come tante raccontate da Gianmaria, il cui orizzonte non si è fermato alle colline che si inseguono “come le onde del mare”, ma quel mare lo ha attraversato raccontando vite di tanti disperati che hanno dovuto lasciare la propria casa. Ci ha ricordato, a noi italiani smemorati che anche noi, fino a poco tempo fa, eravamo dall’altra parte del mare. Ce lo ha sbattuto in faccia, costringendoci a guardare a non voltare il capo. “Eppure lo sapevamo anche noi, l’odore delle stive, l’amaro del partire, lo sapevamo anche noi…”.
L’ultima volta che l’ho visto era al processo di Erri De Luca, amico suo, a cui ha voluto essere vicino anche nel momento della difficoltà, nonostante fosse già ammalato. Ma c’era un amico e c’era una battaglia civile e lui era lì.
Ci siamo conosciuti a Mantova, al Festival della Letteratura. Ci avevano accoppiati per un evento in piazza in cui non si sapeva bene cosa avremmo dovuto fare. Ci siamo chiesti perché noi due, e decidemmo che trovare due di Cuneo in un colpo solo forse era cosa rara. Ci mettemmo il tempo di un caffè a trovare un percorso tra parola e canto. Sapevo le sue canzoni e feci interventi brevi che di volta in volta portavano a una di esse. Mi stupiva il modo minimalista che aveva persino nel suonare la chitarra. Le corde appena toccate, i suoni ridotti al minimo, senza mai andare sopra le righe. Eppure suonava bene, molto bene, ma… come dire, meglio non ostentare troppo.
C’è un modo di dire piemontese, “a smia na roba…”, che letteralmente vorrebbe dire “sembra una cosa…”, ma che in realtà significa: sembra brutto fare vedere tutto quello che sai o sai fare, o che hai, meglio tenere un profilo basso. Gli inglesi lo chiamerebbero understatement, ma a me suona più caldo “a smia na roba…”. E a Gianmaria sembrava davvero una cosa troppo grande che si parlasse delle sue canzoni con lui, del suo successo. «So fare questo». Ecco chi era, uno che non sarebbe mai andato a un talent show né a Sanremo, che sfuggiva alla notorietà, uno che sapeva fare una cosa e la sapeva fare davvero bene.
Si chiamava Gianmaria Testa ed era un mio amico.