Tanti ne sono stati celebrati dal 1946. Di questi, 66 abrogativi, 2 costituzionali e 2 consultivi. L'associazione Openpolis ha preparato un dossier. Nel quale fa il punto su uso ed abuso di uno strumento previsto dalla Costituzione. Per assicurare la partecipazione diretta alla vita democratica. Con relativi costi per i cittadini
La prima volta risale al 2 giugno 1946. Quando, nell’immediato dopoguerra, gli italiani furono chiamati ad esprimersi sulla forma di Stato. E la Repubblica la spuntò sulla Monarchia. La storia del nostro Paese nel suo attuale assetto costituzionale iniziò così. Con un referendum. Da allora se ne sono celebrati 70 in tutto: 66 abrogativi, 2 costituzionali e 2 consultivi. Il 71esimo (il 67esimo abrogativo), promosso da 9 Consigli regionali per proporre l’abrogazione della norma che consente di protrarre le concessioni per l’estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia nautiche dalla costa sino all’esaurimento della vita utile dei rispettivi giacimenti, si terrà il prossimo 17 aprile. A tenere la contabilità, un focus (“Il referendum in Italia: storia e norme”) realizzato dall’Associazione Openpolis, che ha fatto il punto sulle consultazioni popolari dell’era repubblicana.
PAROLA AGLI ELETTORI – Ma che cos’è il referendum? Insieme alle leggi di iniziativa popolare e alle petizioni costituisce uno degli strumenti previsti dalla Costituzione per assicurare la partecipazione diretta dei cittadini alla vita democratica del Paese. Ne esistono tre diverse tipologie. L’abrogativo, il più frequente, come quello che si terrà tra poco più di due settimane sulle trivelle, può essere proposto da almeno 500 mila elettori o 5 Consigli regionali per chiedere l’eliminazione totale o parziale di una legge. La consultazione è valida solo se si raggiunge il quorum, previsto dall’articolo 75 della Costituzione, della maggioranza degli aventi diritto al voto. Poi c’è il referendum costituzionale. Cui sono sottoposte le leggi di revisione della Carta approvate a maggioranza assoluta dai due rami del Parlamento quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano richiesta un quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Il referendum, per il quale a differenza dell’abrogativo non è previsto quorum, è escluso se la legge è stata approvata, nella seconda votazione da ciascuna delle due camere a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti. Ad oggi se ne sono celebrati solamente due. Il primo (approvato) nel 2001, sulla modifica del titolo V. Il secondo (non approvato) nel 2006, sulla revisione della seconda parte della Costituzione. Il prossimo, invece, dovrebbe tenersi ad ottobre per sottoporre al giudizio degli elettori il disegno di legge di riforma che porta la firma della ministra Maria Elena Boschi. E al cui esito il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha subordinato la sopravvivenza stessa del suo governo. Infine, il cosiddetto referendum consultivo. Anche in questo caso la storia repubblicana annovera due soli precedenti: al primo del 1946, è seguito il secondo nel 1989 “per il conferimento del mandato costituente al parlamento europeo, reso possibile da una legge costituzionale ad hoc”.
QUESTIONE DI QUORUM – Ma come sono andati i 70 referendum (in media uno all’anno) che si sono tenuti in Italia dal 1946 ad oggi? Openpolis ha concentrato l’analisi sui 66 abrogativi celebrati nei 70 anni di storia repubblicana. Il primo risale al 1974 quando il mondo cattolico chiedeva di abrogare la legge Fortuna-Baslini che aveva introdotto il divorzio. Il “no” vinse con il 59,3% a fronte di un’affluenza dell’87%. Nello stesso decennio furono proposti altri due quesiti su ordine pubblico e finanziamento ai partiti. In entrambi i casi il quorum fu raggiunto e si affermarono i “no”. Ma il vero boom si registrò negli anni ‘90: ben 32 referendum abrogativi proposti dei quali 24 promossi dal Partito radicale. Nel 34% dei casi il quorum non è stato superato. Proprio come successo a tutti e 16 i quesiti sottoposti agli elettori negli anni 2000. L’ultima tornata risale al giugno 2011: quattro quesiti, (due proposti dall’Italia dei valori e due dal Comitato per l’acqua pubblica) tutti con quorum raggiunto e vittoria del sì. In questo caso l’affluenza registrata è stata relativamente bassa (di poco superiore al 54%), ma con una percentuale di consensi favorevoli molto alta, oltre il 94%. In totale, quindi, il 40,91% dei 66 quesiti abrogativi proposti nell’arco degli ultimi 70 anni non ha raggiunto il quorum. Di quelli risultati validi, il 58,97% ha avuto esito positivo (vittoria del sì) e il restante 41,03% esito negativo (vittoria del no). Ma, oltre che per la validità della consultazione, il raggiungimento del quorum rileva anche per un’altra ragione. Di carattere puramente economico: i rimborsi spettanti al comitato promotore a carico dello Stato che scattano, infatti, solo in caso di affluenza ai seggi di almeno il 50% più uno degli aventi diritto al voto.
BUSINESS ELETTORALE – I quesiti sono soggetti a un duplice controllo. Il primo, puramente tecnico, da parte dall’ufficio centrale per il referendum, puramente tecnico, e il secondo ad opera della Corte Costituzionale. Ad oggi sono più di 60 quelli “bloccati” dalla Consulta. “Ultima vittima illustre in ordine di tempo è il referendum sulla legge Fornero proposto dalla Lega nord, che nel gennaio 2014 è stato dichiarato inammissibile”. Ma chi può sottoporre un quesito al vaglio della Consulta? Innanzitutto gli elettori italiani, con la raccolta di 500 mila firme attraverso i “comitati promotori”. Ai quali è riconosciuto un “indennizzo” economico “pari alla somma risultante dalla moltiplicazione di un euro per ogni firma valida fino alla concorrenza della cifra minima necessaria per la validità della richiesta e fino ad un limite massimo pari complessivamente a euro 2.582.285 annui, a condizione che la consultazione referendaria abbia raggiunto il quorum di validità di partecipazione al voto”. Analogo rimborso è inoltre previsto “per le richieste di referendum effettuate ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione”. Cioè per il referendum costituzionale. “In pratica ai comitati promotori, nel caso di quesito dichiarato ammissibile e quorum raggiunto, viene riconosciuto un rimborso pari a un euro per ogni firma valida raccolta. Una forma di finanziamento pubblico che da un lato risarcisce i comitati civici che si attivano per proporre un referendum, dall’altro rimborsa anche quei partiti politici che hanno fatto di questo strumento un loro cavallo di battaglia”. Per esempio, grazie ai due referendum proposti nel 2011, “l’Italia dei valori ha incassato oltre un milione di euro”. Discorso analogo per il Comitato promotore per il sì ai referendum per l’acqua pubblica, che “nel bilancio 2012 certificava 624.093 euro di rimborsi elettorali”. Insomma, “parliamo di 500.000 euro a quesito, per un totale di 2 milioni di euro”. Cifre che, secondo Openpolis, legittimano una domanda: “E’ giusto che a società civile e partiti politici venga riconosciuto lo stesso tipo di indennizzo per l’attività di promozione di un referendum?”.
CITTADINI TRADITI – Poi c’è la questione degli effetti della consultazione. Qualora l’esito risultasse negativo, non potranno essere proposti referendum per l’abrogazione della stessa legge per un periodo di 5 anni. Se, invece, il quesito venisse approvato, il presidente della Repubblica deve dichiarare l’avvenuta abrogazione della legge tramite decreto pubblicato in Gazzetta ufficiale. L’abrogazione ha valore dal giorno successivo alla pubblicazione del decreto stesso. “Ma una volta che una norma è stata cancellata, in tutto o in parte, da un referendum, è possibile per il Parlamento o il governo ri-legiferare sulla materia?”. Come sancito dalla Corte Costituzionale (sentenza 199 del 2012) la risposta è no. “A meno che non si verifichino dei cambiamenti strutturali del quadro politico, o del contesto generale – spiega Openpolis –. Definizione ambigua e aperta a infinite interpretazioni e che rende possibili le eccezioni”. Come capitato in seguito al referendum del 1993 per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, di fatto poi reintrodotto lo stesso anno dal Parlamento sotto forma di rimborso elettorale. “La stessa cosa, secondo alcuni, sta avvenendo all’esito del referendum 2011 sull’acqua pubblica. Sulla materia è stato presentato un disegno di legge dall’intergruppo parlamentare ‘Acqua bene comune’, composto da tutti i parlamentari di Movimento 5 stelle e Sel, da una ventina di appartenenti al Pd e da un deputato di Scelta civica. Il provvedimento è però già al centro di roventi polemiche per gli emendamenti proposti dal governo, accusato da membri dell’opposizione e del comitato promotore di andare contro la volontà dei cittadini.
ABUSI E BOICOTTAGGI – Se la consultazione popolare è, in sostanza, uno strumento di partecipazione diretta dei cittadini alla vita democratica del Paese, il fatto che il 40% dei referendum abrogativi non abbia raggiunto il quorum “spiega bene le difficoltà” riscontrate negli anni. Le cause sono molteplici: “Dall’abuso dello strumento – basti pensare ai 32 quesiti referendari nei soli anni ’90 – ai problemi di comprensibilità degli stessi, passando per i tentativi da parte della classe politica di ‘neutralizzare’ in vario modo i possibili effetti dei risultati elettorali (come nel già citato referendum sul finanziamento pubblico alla politica del 1993)”. E a pochi giorni dalla consultazione sulle trivelle nei mari italiani, conclude Openpolis, la storia sembra ripetersi. “Nei giornali se ne parla poco, e i principali partiti politici non sembrano interessati a fare un’aperta campagna in materia. Difficile al momento dire se il quorum verrà raggiunto, ma una cosa è certa: il rapporto dei cittadini, e della classe politica, con il referendum sembra ancora complicato”.
Twitter: @Antonio_Pitoni