A inguaiare Vincenzo Artale, era diventato un simbolo dell’associazione Antiracket di Alcamo, sono stati i suoi stessi colleghi che partecipavano alle attività dell’associazione. L'aggiunto di Palermo Teresa Principato: "È un sistema che viene adottato, l'antimafia di facciata dietro la quale si nasconde poi la commissione di reati di notevole entità"
Dieci anni fa aveva denunciato alcuni esattori di Cosa nostra che venivano a chiedere la “messa apposto” alla sua azienda: un atto non comune in una città abituata da decenni a convivere in silenzio con lo spettro delle estorsioni mafiose.
È per questo motivo che Vincenzo Artale (a destra nella foto) era diventato un simbolo dell’associazione Antiracket di Alcamo: a maggio scorso era anche stato eletto nel collegio dei severissimi probiviri. E visto che ad Alcamo, 50mila abitanti al confine tra Palermo e Trapani, la questione pizzo ha sempre rappresentato un cappio per l’economia locale, ecco che Artale con la sua denuncia era diventato un esempio da seguire, citato anche durante alcune riunioni in prefettura: in quella veste era riuscito persino ad incassare 250mila euro di indennizzo dal Fondo di solidarietà previsto per le vittime di estorsione ed usura. Peccato che Artale, l’imprenditore che lo Stato aveva risarcito come vittima del racket, si fosse avvicinato nel frattempo a Mariano Saracino (a sinistra nella foto), il capomafia di Castellammare del Golfo: grazie alla sua sponsorizzazione riusciva ad imporre la fornitura di calcestruzzo alle imprese edili nel territorio.
Chi si rifiutava di acquistare il cemento dall’imprenditore alcamese, riceveva le puntuali minacce degli uomini di Saracino, finito in manette stamattina insieme ad altre tre persone, più lo stesso Artale, ormai ex paladino della lotta al racket. Solo l’ennesimo colpo al fronte della cosiddetta antimafia parolaia: un’impostura decennale dovuta al moltiplicarsi di sedicenti paladini della legalità che si fanno scudo di slogan ed etichette per meglio delinquere.
E dire che a inguaiare Artale sono stati i suoi stessi colleghi che partecipavano alle attività dell’associazione Antiracket. Come Vincenzo Parisi, che nel 2006 aveva cominciato a denunciare le estorsioni mafiose insieme all’imprenditore arrestato stamattina dai carabinieri del comando provinciale di Trapani. “Ho capito che è a disposizione del duo Saracino – Badalucco (a sua volta arrestato stamani, ndr). Non ha ancora un suo impianto di calcestruzzi, lo sta costruendo, ma si rifornisce dalla Cesat di Cinisi”, ha detto Parisi agli investigatori. “Lo conosco da tempo: nel 2006 aveva subito due attentati incendiari e aveva fatto richiesta di accesso ai Fondi di solidarietà per le vittime dell’estorsione e dell’usura senza ottenere in prima battuta il via libera dalle istituzioni. Poi ricevette 250mila euro di indennizzo in due tranche”, dice invece Vincenzo Lucchese, presidente dell’associazione Antiracket di Alcamo. “Mi risulta difficile – continua Lucchese – credere ad Artale come il beneficiario di un sistema di gestione del calcestruzzo tra Alcamo e Castellammare del Golfo, ma nonostante ciò ho convocato per domani il consiglio direttivo per procedere all’espulsione formale e ci costituiremo parte civile nel processo”.
Le prime polemiche intorno all’Antiracket di Alcamo erano nate già con la fondazione dell’associazione, quando a firmare l’atto fondativo c’era anche Norino Fratello, ex deputato regionale che avrebbe poi patteggiato una condanna a diciotto mesi per concorso esterno a Cosa nostra. Negli anni successivi l’associazione Antiracket ha poi cercato di rilanciarsi, promuovendo alcune attività sul territorio. Un rilancio interrotto dal caso Artale: imprenditore antimafia nei giorni pari, fornitore di calcestruzzo per Cosa nostra in quelli dispari. Solo l’ultimo paradosso nella terra di Matteo Messina Denaro, la primula rossa di Cosa nostra.
“È un sistema che viene adottato, l’antimafia di facciata dietro la quale si nasconde poi la commissione di reati di notevole entità. Anche l’imprenditore Vincenzo Artale ha subito danneggiamenti e li ha denunciati. Risulta essere una vittima della mafia ma al contempo, questa ormai la contraddizione di Cosa nostra, era colluso e si giovava delle intimidazioni della mafia per ottenere commesse e lavori – dice il procuratore aggiunto di Palermo Teresa Principato – Quest’anno abbiamo assistito a delle situazioni sorprendenti, come il fatto di apparire intoccabili e, anzi, come dire, benefattori della società civile, e dall’altro di comportarsi esattamente come mafiosi”.