“Le lettere d’amore fanno solo ridere: le lettere d’amore non sarebbero d’amore se non facessero ridere; anch’io scrivevo un tempo lettere d’amore, anch’io facevo ridere: le lettere d’amore quando c’è l’amore, per forza fanno ridere… e scrivere d’amore, anche se si fa ridere; anche quando la guardi, anche mentre la perdi quello che conta è scrivere; e non aver paura, non aver mai paura di essere ridicoli: solo chi non ha scritto mai lettere d’amore fa veramente ridere”.
(Roberto Vecchioni, “Le lettere d’amore”)

BOLOGNA – Noi cittadini del grano non sappiamo proprio niente, ignoriamo o diamo per scontato, tra Mulino Bianco e intolleranze al glutine. Pare improvvisamente divenuto un nemico, il grano. Le distese di grano però sono lo scenario che fa stringere gli occhi di “Io non ho paura”, è il campo di grano con corvi in volo di Van Gogh, il grano è il fondale della “Guerra di Piero” di De Andrè, il “grano da crescere, i campi da arare” che fanno andare dritti a “Ciao amore ciao” di Tenco e Battisti che giustamente chiedeva “Che ne sai di un campo di grano, poesia di un amore profano”. Quelli dove pensi di rotolarti, quelli che nella memoria bucolica sono infarciti del canto fastidioso e pungente delle cicale, di un caldo attorno che rende le mani scivolose e gli occhi come fessure.

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Le Ariette, Paola, Stefano, Maurizio, lo conoscono bene il frumento come se in “Tutto quello che so del grano” umilmente si piegassero davanti al mistero, alla fantasia del creato in una preghiera laica che sa di alchimia e fascinazione, di costruzione e trasformazione, di divenire e di attesa, di pazienza e contemplazione. Il loro racconto è materico, le loro parole sono carne e dita passate come setaccio a sentire il ruvido, la zolla, a tastare e toccare, sono polpastrelli che fanno sentire il loro peso che sa di abbraccio, di stretta forte delle mani, di un pacca sulla spalla a dirti che “andrà tutto bene”, anche quando sai che non è così, anche quando tutto sta per finire. Come in natura, con i cicli vitali, con gli inverni che annunciano e preparano il terreno per la primavera e l’estate. Siamo noi, terrestri sparsi ad inventarci l’esistenza, i chicchi di grano che tengono tra le mani granitiche, granulose, sode e solide, piccoli, dispersi, insignificanti ma che, se messi insieme, portiamo la vita, la farina, il pane, l’alimento principe dell’uomo da millenni che lo ha aiutato, sostenuto, sostentato. Pane che è anche mulino e ingegno contadino, è acqua che scorre, è la Natura al servizio dell’uomo senza che quest’ultimo la violenti, la usurpi, la distrugga.

Le Ariette rispettano i tempi, le fasi, le stagioni, rispettano i silenzi e la fatica, rispettano le persone, quella grande comunità che in questi venticinque anni è cresciuta e si è accoccolata dolce attorno a loro, alla loro semplicità, poetica e di lavoro pesante, piena di pathos ma anche ancorata rigidamente alle fondamenta della terra, alle radici che sondano e tengono, alle foglie spazzate dal vento, alle cortecce bitorzolute dove è piacevole passarci il palmo della mano e sentire il brivido dell’irto, il graffio, il solco delle spine. Non ci fanno credere che sia tutto rose e fiori, anzi. I loro racconti sono costellati non dalla rassegnazione ma dalla comprensione che tutto, soprattutto felicità e infelicità, si giochi in pochi anni ed è inutile arginare il tempo, inutile sfuggire alla sua tagliola e ghigliottina. Se invece si riesce con serenità a seguire l’onda, a gioire del poco e del piccolo, a non invidiare ma a fare quello che ci è possibile, quello che ci fa stare meglio, quello che ci permette di ascoltarci, di sentirci, di amarci.

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Un grande racconto d’amore, in definitiva, dove la commozione fa da spartitraffico e cuscino dove immergere la testa proteggendola, in forma di missive, di lettere scritte a mano come una volta, dove la calligrafia è segno e disegno e stato d’animo e stile e carattere, che piega e affonda il foglio, anch’esso figlio e prodotto dell’albero. Mercificatorio e insolente, offensivo e squallido che “grano” sia divenuto sinonimo di “moneta”, “soldi”, termini che più lontani e dissimili non ce ne sono.

Lettere d’amore che sono pezzi di ricordi e sogni, di nostalgie e desideri, passaggi e sentieri, percorsi di vita, scambiata, diffusa come acqua ad irrigare, pioggia a ristorare. Prendere un foglio e scrivere una lettera, a qualcuno, a qualcosa, una riflessione che sa di tempo preso, di dubbi, di sguardi, soprattutto di gentilezza. La cura nel cucinare e quella nel servire il cibo, nel grande rito eterno e primordiale della convivialità, del parlarsi con la bocca piena e sorridersi, perché a bocca piena con i sapori delle uova di oca o dell’insalata, del vino rosso, dei salumi o del formaggio (tutti prodotti della loro terra) non puoi far altro che avere fiducia nel domani, negli uomini. Il grembiule sporco di farina è lo scudo garbato, cortese ed educato che non allontana né divide ma abbraccia ed accoglie. Raccontano quella magia di acqua e farina e olio che poco dopo diverrà focaccia croccante da sbriciolarsi addosso, calda come un camino, con quell’arte di maneggiare quel bolo spugnoso e morbido e colloso che si raggruma e si pialla in un continuo lavoro di pressione e stiratura. Gesti semplici, come semplici sono le parole e semplici sono i sentimenti e semplici gli alimenti. E tutto ci sembra così strano, straniero ed alieno in questo mondo di numeri, di hi-tech, di disillusione e pessimismo, di cinismo e individualismo. Le Ariette sono disarmate, le loro storie toccanti ma non lacrimevoli, la loro arma principale è la parola “insieme”. Che cos’è l’amore? Forse è questa focaccia fatta per te. Le Ariette fanno bene: al cervello, al cuore, al respiro. “Ma allora che ci guadagni” “Ci guadagno – disse la volpe – il colore del grano” (Saint Exupery)

Visto al Teatro delle Moline, Bologna, il 23 marzo 2016

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