Infiammano le proteste dei lavoratori Almaviva, Uptime e Gepin: le parti sociali stanno tentando di trovare una soluzione per evitare l’impatto devastante del licenziamento di migliaia di operatori di call center.

La vertenza più rilevante sotto il profilo del numero di lavoratori coinvolti è certamente il colosso Almaviva, che ha dichiarato circa 3000 esuberi, di cui 1670 nella sola città di Palermo, cui seguono Roma (920 persone) e Napoli (400 persone). Gepin e Uptime hanno aperto le procedure di licenziamento per 450 lavoratori nelle sedi di Roma e Napoli. I sindacati avvertono che questo è solo l’inizio, poiché si prevede un’ulteriore crisi del settore dei call center che coinvolgerà 8 mila lavoratori.

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Cosa hanno in comune tutte queste vertenze? Cosa e chi determina crisi periodiche? Quali soluzioni per porre fine ad una continua trattativa al ribasso del costo del lavoro iniziata vent’anni fa?

Da molti anni mi occupo di questo fenomeno (qui la mia audizione alla Commissione Lavoro della Camera), e la risposta a queste domande è sempre la stessa: assenza di regole adeguate per la tutela del lavoro negli appalti e nell’ambito delle cosiddette societarizzazioni. Il gioco al ribasso del costo del lavoro è abbastanza semplice ed intuitivo: la sopravvivenza delle società che lavorano in appalto dipende dall’ottenimento e dal mantenimento delle commesse, per lo più concesse da grandi realtà imprenditoriali (appaltanti o committenti), che ad un certo punto possono decidere di ridurre il corrispettivo dell’appalto. Se l’appaltatore non accetta rischia di perdere la commessa e di uscire dal mercato, quindi nella maggior parte dei casi viene aperta una trattativa con i lavoratori, ai quali non resta che accettare le “nuove” condizioni pur di non perdere il posto di lavoro in conseguenza di un probabile trasferimento delle attività in altre società. Per questo motivo, i lavoratori sono quasi sempre costretti ad approvare le richieste di parte imprenditoriale, talora coincidenti con significative riduzioni degli stipendi.

Ne deriva che a determinare la crisi occupazionale del settore è anzitutto la scelta dei committenti di dirottare le lavorazioni in altre società, italiane o straniere, che assumono operatori con stipendi più bassi rispetto a quelli in servizio presso il precedente appaltatore. Non è un caso, infatti, che le organizzazioni sindacali chiamino in causa Poste Italiane come appaltante per la vertenza Uptime e Gepin, e che in passato anche Almaviva abbia dichiarato esuberi in conseguenza della perdita delle commesse.

Tutta la partita dei call center si gioca su questo campo, apparentemente di natura concorrenziale (è il mercato, bellezza!), ma che in realtà si consuma sul piano essenzialmente politico. L’outsourcing consente al committente di sganciare il più possibile i salari dalla produttività e dal profitto. Se l’imprenditore “che decide” veste i panni del datore di lavoro, la verifica dell’effettiva sussistenza delle contrazioni economiche che giustificano i tagli è più agevole per i lavoratori e per i sindacati. Se il medesimo imprenditore assume la veste di committente, esso non è tenuto a giustificare la pretesa di ridurre il corrispettivo dell’appalto, ben potendo imporla a prescindere dalla verirfica di una crisi del settore. Ad oggi, soltanto instaurando un rapporto di lavoro diretto con la grande azienda è possibile godere di una maggiore stabilità lavorativa, nel senso che è più difficile essere licenziati o veder ridurre il proprio stipendio senza una effettiva crisi aziendale, e certamente non bisogna periodicamente temere la scadenza di una commessa.

A questo punto occorre fare una precisa scelta politica, o si predispone una normativa ad hoc per la responsabilizzazione del committente (qui spiego le criticità della clausola sociale per il raggiungimento di tale obiettivo), con un conseguente maggiore equilibrio redistributivo della ricchezza fra capitale e lavoro, oppure si continua a far finta di nulla, gestendo l’emergenza senza risolverla.

Una soluzione in tal senso, non può prescindere dalla presa di coscienza delle cosiddette societarizzazioni, senza le quali le esternalizzazioni non avrebbero delle conseguenze così devastanti per i lavoratori. Molto di frequente i lavori in appalto vengono gestiti da società controllate da altre società, addirittura dagli stessi committenti, che in tal modo si ritrovano ad amplificare il proprio potere di contrattazione nei confronti dei lavoratori. Le attuali leggi a tutela dei lavoratori non prevedono una responsabilità diretta delle società controllanti nei confronti dei lavoratori delle società controllate, quindi è molto più conveniente per un imprenditore non assumere direttamente i lavoratori e creare, in alternativa, una società ad hoc che si incarica di fare ciò e a cui affidare l’appalto.

Riguardo alla vertenza Almaviva, assumere piena cognizione della differenza fra l’essere assunti dalla società “principale” e l’essere assunti da una società in appalto e/o controllata, aiuta a comprendere come quando la complessità della struttura organizzativa caratterizza anche l’appaltatore, per i lavoratori i rischi non possono che amplificarsi. Almaviva non è una singola società, è un gruppo con società sparse per il territorio nazionale e all’estero, ed Almaviva Contact (cioè quella che ha annunciato il piano di esuberi) è una di queste. Non è l’intero gruppo ad essere responsabile del destino dei lavoratori che rischiano di perdere il posto, ma soltanto la singola società che li ha formalmente assunti. Con le attuali leggi, come possono difendersi i lavoratori da un così vasto e intrecciato sistema di relazioni commerciali e societarie? Semplice, non possono.

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