Da italiano emigrante e dall’osservatorio privilegiato del Sud est asiatico, rifletto spesso sulle possibilità di sviluppo dell’Italia, sul nostro posto nel mondo, sulla percezione che diversi popoli hanno di noi, su quanto di noi amino, comprino e amerebbero ulteriormente se potessero conoscere ciò che qui ancora non è arrivato.

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E leggo con piacere che l’export di vino nel 2015 ha raggiunto picchi mai toccati, con un + 6% rispetto al 2014 e con la Cina ormai nostro quarto mercato. Stessa cosa per pasta, olio, insaccati, formaggi, e la quasi totalità dell’agroalimentare italiano. Una notizia positiva e incoraggiante, non solo per l’orgoglio di chi come noi expat possa vantarsi con gli amici del miglior cibo al mondo, né per il nostro palato, che può sentirsi a casa senza doversi piegare troppo alle deprimenti abitudini locali, ma soprattutto per le nostre aziende e le nostre prospettive di sviluppo.

Quello però di cui dobbiamo renderci conto, è l’enorme potenziale di crescita che abbiamo ancora davanti, e quanto possiamo fare per far si che questo settore triplichi velocemente il suo valore e diventi sempre più, insieme alla manifattura e al turismo, il pilastro su cui poggiare l’economia italiana di questo secolo. La richiesta e la necessità di cibo italiano, in particolare in quest’Asia così in crescita e lontana dalle nostre tradizioni, è impressionante.

A Bangkok EM Quartier, il più bel mall che io abbia mai visto, è un mix tra Expo ed Eataly, dedicato a tutti i cibi del mondo, in cui metà di quanto è venduto è italiano o suona italiano senza purtroppo esserlo veramente. Le vetrine di Tokyo abbondano di nomi italiani a sottolineare gusto ed eleganza, come se il nostro fosse l’unico cibo straniero amato e rispettato (altre cucine a distanze siderali, ci scuseranno i francesi…) in un luogo in cui cui l’arte del cibo e dell’ospitalità ha un’importanza così grande.

In Cina, a Singapore, in Malesia, non esiste altro cibo al mondo che abbia la stessa riconoscibilità, anche laddove sia costituito in catene da americani e inglesi. Ma c’è sempre più bisogno di cibo italiano vero, e di sempre maggiore qualità, non di mozzarelle prodotte in Australia con nomi italiani, o di pomodori thai che dei ciliegini non hanno nemmeno l’ombra. Sull’Italian sounding, sulla tutela dei nostri prodotti e la loro comunicazione il governo in carica ha fatto sinora molto e bene, con il lavoro integrato dei ministeri dello Sviluppo Economico e delle Politiche Agricole.

Per la prima volta il tema è stato affrontato in maniera diretta e strategica, con un piano di comunicazione forte nei mercati di destinazione, inizialmente in Nord America sperando che presto l’attenzione venga destinata anche all’Asia stessa. Ma quello che di cui ancor di più dobbiamo essere coscienti, è la responsabilita morale che l’Italia attraverso il cibo può avere verso il mondo intero nel XXI secolo. In un mondo sempre più cosciente del pericolo costituito dagli allevamenti bovini (tre volte più pericolosi per l’ambiente dei combustibili fossili), delle problematiche causate alla nostra salute dalle carni rosse e della distruzione delle foreste causata dal consumo di olio di palma, in cui le abitudini alimentari globali (de facto, americane, cui si sommano sempre più quelle cinesi) continuano a causare fame cronica in 800 milioni di persone, è evidente che qualcosa dovrà cambiare e che questo sarà il Secolo di questo cambiamento.

E il cambiamento dovrà essere ancora più veloce del previsto se riteniamo insostenibile il regime alimentare attuale, considerando quanti nuovi milioni di cinesi, indiani o indonesiani escono ogni settimana dalla povertà e sono finalmente pronti a consumare e mangiare sempre di più quanto noi.

Il ruolo dell’Italia in questo cambiamento potrebbe essere davvero centrale e di guida del mondo, ovviamente rafforzato dalla cornice europea.

Se il modello di consumo sino-americano non è sostenibile e sta portando alla distruzione del Pianeta come lo abbiamo conosciuto, e se una rapida conversione globale al veganesimo non è verosimile, e, personalmente, per quanto utile, nemmeno auspicabile, il modello italiano, ovvero la dieta mediterranea, la nostra biodiversità, la capacita di trasformazione delle materie prime che ha reso nei secoli prodotti semplici piatti amati in tutto il mondo, possono diventare un esempio per il consumo di cibo globale?

Senza aver la pretesa di vedere da un giorno all’altro milardi di cinesi e americani mangiare pasta e verdure al posto di pollo fritto e hamburger, credo però che la comprensione del dovere morale che l’Italia abbia in tal senso, oltre alle opportunità per la propria agricoltura ed industria di trasformazione alimentare, sia qualcosa su cui imprenditori e politici, investitori e lavoratori, intellettuali, giornalisti e tutti coloro che amano guardare il mondo al di là del proprio interesse personale debbano soffermarsi a lungo.

Il gran lavoro portato avanti da Slow Food ha gettato le basi per questa presa di consapevolezza, a partire dalla tutela della biodiversità e dall’affermazione della dignità culturale e scientifica dei saperi tradizionali.

Expo in questo è stata un’importantissima opportunità globale, e la Carta di Milano promossa dall’Italia ne è stato un ottimo momento di riflessione e punto di partenza.

Credo però che dobbiamo tutti fare uno sforzo per renderci conto che questo è davvero solo un punto di partenza, che la tematica non può uscire dal radar dei media una volta terminata l’Esposizione universale, e che possiamo seriamente avere l’ambizione di veder l’Italia lasciare un segno importante nel Secolo che stiamo affrontando.

Bisogna comprenderlo, volerlo, e disegnare politiche adeguate, proseguendo nella battaglia per la tutela dell’originalità dei prodotti, comunicando l’Italia, i suoi tesori agroalimentari e le sue aziende in maniera integrata e sistemica, favorendo accordi con i grandi player della distribuzione off line e on line per portare su nuovi mercati aziende ancora troppo piccole per poterlo fare con le proprie forze, agevolando l’export di chi già lo fa con adeguati incentivi fiscali e aiuti agli investimenti, siglando nuovi accordi internazionali per aprire mercati mai considerati attraenti.

Sarebbe inoltre importante che questo sforzo passi dai luoghi di formazione, affinchè si introducano nelle scuole programmi di educazione alimentare, fisica e ambientale come strumenti di salute e cultura e che forte sia il lavoro diplomatico per includere il problema degli sprechi e delle perdite alimentari e idriche all’interno dell’agenda internazionale.

Se maturasse questa consapevolezza, e se l’Italia riuscisse a porsi come faro dello sviluppo alimentare attraverso le sue aziende e le sue politiche, a giovarne non sarebbe solo la nostra economia, ma il mondo stesso avrebbe maggiore possibilità di conservazione, e milioni di persone potrebbero porre sempre più al centro della propria esperienza quotidiana il cibo come cultura e fonte di salute.

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