Boccia e Vacchi hanno le stesse idee quasi su tutto, divergono solo sul futuro dell'organizzazione e sull'appoggio a Renzi da "sostenere sulle riforme"
Uno dice: “Ci vuole discontinuità”. L’altro ribatte: “Non userò mai la parola discontinuità, è irrispettosa verso chi ci ha preceduto”. L’analisi dei programmi presentati da Alberto Vacchi e Vincenzo Boccia potrebbe fermarsi qui: la discontinuità è, infatti, il punto che maggiormente distingue i due aspiranti alla presidenza di Confindustria. Per il resto, più analogie che differenze. Entrambi i candidati richiamano il ruolo centrale dell’industria, lamentano la dilagante “cultura anti industriale”, mostrano un elevato senso della propria missione: “Siamo chiamati a tenere in piedi una nazione, a salvare l’Italia“, afferma Vacchi; “Sta a noi guidare il rinnovamento del paese”, echeggia Boccia.
Quello che li distingue è però lo spirito di fondo. Se Vacchi parla da “esterno’’, muovendo una forte critica all’attuale sistema, chiedendo ripetutamente “discontinuità” e “cambiamento”, Boccia si esprime col sentimento di chi considera l’associazione come una “casa” molto amata: apre il suo discorso con “cari amici”, lo chiude con l’affettuoso riconoscimento a Giorgio Squinzi, alla sua “abnegazione e sacrificio personale”, e lancia uno slogan quasi romantico: “La nostalgia di futuro ci guiderà ogni giorno”. Vacchi è meno empatico, sollecita i colleghi all’autocritica (“non possiamo dirci estranei al degrado generale”), afferma che troppo spesso la vita associativa è utilizzata “come trampolino per carriere personali”, lamenta la scomparsa dello “spirito di servizio’”, chiede “un cambio di mentalità”. Boccia vede una Confindustria “di proposta e di progetto”, rileva che il sistema associativo “rappresenta un costo solo se non funziona adeguatamente’’, e rivendica come un buon risultato il Jobs Act. Che Vacchi, invece, non cita nemmeno.
Sulle relazioni industriali si torna a programmi-fotocopia. Entrambi prendono come riferimento l’ormai noto “modello Federmeccanica“: sia Boccia sia Vacchi vogliono un contratto nazionale che sia solo cornice per diritti di base e salario minimo, tutto il resto alla contrattazione aziendale. Boccia immagina che quest’ultima possa prevedere “deroghe al contratto nazionale“, ma respinge decisamente un intervento governativo nella riforma di rappresentanza e contratti: “Non vogliamo interventi esterni”. Vacchi parla di “respingere veti, superare resistenze e rifiuti”, presumibilmente intendendo quelli dei sindacati, e afferma che “al centro dei contratti deve esserci l’esigenza delle imprese di recuperare competitività”. Entrambi prendono atto che il paese è a crescita zero, ma nuovamente divergono sul modello di sviluppo: Boccia è per una politica industriale in grado di creare un ecosistema favorevole per tutto il mondo delle imprese, incoraggiandone la nascita e la crescita dimensionale e attraendo gli investimenti esteri; Vacchi ritiene che la strada da seguire sia quella delle filiere, puntando a una crescita per singoli settori che svolgano poi funzione di traino.
Boccia vede una Confindustria soggetto politico portatore d’interessi generali, Vacchi la immagina più come organizzazione di “servizio’” alle imprese. E se Boccia afferma che la “sua” Confindustria sosterrà e appoggerà il “pragmatismo’” del governo Renzi sul rinnovamento e le riforme, Vacchi ritiene invece necessario segnare una distanza netta dalla politica, di cui dà un giudizio complessivamente negativo. Tuttavia, questo non gli impedisce di chiedere che Confindustria “sieda al tavolo col governo nella definizione dei capitoli della spesa sanitaria”: quasi evocando Gianfelice Rocca, suo primo sponsor e secondo operatore della sanità privata. Analogo discorso per le decisioni su grandi opere e infrastrutture: anche in questo caso, l’associazione dovrebbe essere parte attiva al tavolo del governo.
Sia Boccia che Vacchi si propongono poi come promotori di una campagna di “comunicazione e sensibilizzazione per diffondere la cultura industriale”, che dovrà innanzi tutto partire dalla scuola. “Purtroppo i giovani non vedono più nella fabbrica una prospettiva di vita”, si duole Vacchi, che si propone quindi di ri-orientare le scelte della meglio gioventù italica. Come? Facendo in modo che “la cultura tecnica diventi priorità nazionale’”. In perfetto accordo con Boccia, che a sua volta propone di “rafforzare gli istituti tecnici”. Entrambi dimenticando, evidentemente, che abbiamo il più basso numero di laureati d’Europa.
Anche il Sole 24 Ore è strumento per restituire all’industria un posto al centro del mondo: “Sul Sole occorre fortemente incidere, come editore, per qualificare a tutto tondo l’immagine del fare impresa”, sostiene Vacchi, mentre Boccia afferma che il quotidiano confindustriale dovrà essere “sempre più portatore della cultura economica e industriale del paese”, compito che potrà svolgere al meglio restituendogli “indipendenza economica”. Stesso discorso per il Centro studi, che entrambi i candidati vedono in un ruolo chiave: Boccia, in particolare, annuncia che terrà per sé la delega relativa, e promette che sotto la sua gestione il Csc avrà quel “ruolo potenziato” indispensabile per “dare fondamento economico alle nostre linee politiche’”. Fin qui i due candidati, domani (oggi per chi legge, ndr) la parola passa ai grandi elettori che sceglieranno se dare il proprio voto a Vacchi o a Boccia. Ma più dei programmi, s’immagina, a decidere il vincitore sarà la differenza tra continuità e discontinuità.
Da Il Fatto Quotidiano del 30 marzo 2016