“Sonya Caleffi iniettava aria nelle vene delle sue vittime, non per provocare la morte, ma per creare un aggravamento e attivare l’intervento dei medici dando l’allarme. In questo modo, essendo lei direttamente sul luogo, desiderava acquisire visibilità positiva”. Lo ricorda l’avvocato Renato Papa, che difese Sonya Caleffi, l’infermiera killer che nel 2004 fu arrestata per gli omicidi di cinque pazienti avvenuti nelle strutture ospedaliere di Como e Lecco nelle quali operava. Altri i casi di morti sospette imputate alla Caleffi, senza però trovare precisi riscontri. Al momento la ex infermiera è detenuta nel carcere di Bollate dove finirà di scontare la sua pena nel 2017 (20 anni ridotti a 14 grazie a un condono e alla buona condotta). Il suo caso torna oggi alla memoria, dopo che mercoledì i Carabinieri del Nucleo Investigativo di Piombino hanno arrestato Fausta Bonino, 56 anni, infermiera, accusata di omicidio volontario continuato, aggravato dalla crudeltà per aver iniettato almeno su 12 delle sue 13 vittime delle forti dosi di Eparina, un anticoagulante in grado di provocare la morte. La donna avrebbe somministrato la sostanza a soggetti tra i 61 e gli 88 anni, non gravemente malati. “In una prima fase del processo Caleffi- spiega l’avvocato – fu considerata verosimile la possibilità che Sonya fosse un ‘angelo della morte‘ che interveniva per alleviare le sofferenze dei pazienti terminali. Poi, fu appurato che agiva prevalentemente perché affetta da disturbi della personalità. Oggi posso dire che è una persona recuperata”. Ma esiste un sistema di controllo sulla salute psichica di chi opera nella sanità? “Non c’è alcun presidio all’interno delle aziende ospedaliere che si occupa dell’aspetto psicologico di chi vi opera“, spiega l’avvocato. “La sanità degli operatori fa parte di una considerazione a priori al momento dell’assunzione lavorativa”
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