Calcio

Recoba si ritira dal calcio. L’addio del Chino: fece “innamorare” Moratti. Il saluto degli ex compagni – Video

Il 31 marzo, nello stadio Gran Parque Central di Montevideo dove è diventato grande e dove è tornato a giocare dopo la sua carriera interista, darà la sua festa al football con ex compagni come Zamorano, Zanetti, Veron e Vieri. Per portarlo a Milano Oriali falsificò il suo passaporto. E nella prima partita di Ronaldo a San Siro nell'agosto '97, fu l'uruguagio e non il Fenomeno a sorprendere tutti grazie ad un'incredibile doppietta

Gli ultimi mesi li ha passati a giocare a calcio sulla spiaggia. Come Garrincha, che nel 1972 correva sulla sabbia di Torvaianica, provincia di Roma. Solo che Manè, l’uccellino brasiliano che donava allegria al popolo, aveva già chiuso una carriera incredibile e ricca di successi, tra cui due titoli mondiali. Mentre Alvaro Recoba, che qualcosa alla fine ha vinto anche lui, sembra che abbia giocato sempre sulla spiaggia, per puro divertimento, prendendosi le giuste pause per non affaticarsi troppo. Invece sulla spiaggia di Pocitos, a giocare a beach soccer con il Racing club de Montevideo, il Chino ci è arrivato dopo vent’anni di onorata carriera, chiusa lo scorso anno con il titolo al Nacional. E giovedì 31 marzo, nello stadio Gran Parque Central di Montevideo dove è diventato grande e dove è tornato a giocare dopo la sua parentesi interista, darà la sua festa di addio al calcio con ex compagni come Zamorano, Zanetti, Veron e Vieri. L’importante è che tutti si divertano, e nessuno si affatichi troppo. Giocare con lentezza, sostiene Recoba.

Baricentro basso, incedere claudicante, palla toccata solo ed esclusivamente col piede sinistro, eppure non lo ferma nessuno: prende la palla al limite della propria area, dribbla mezza squadra avversaria e la infila nell’altra porta. Ancora una volta: sembra Manè, è il Chino. Questo gol, segnato vent’anni fa con la maglia del Nacional, è quello che registrato su una vecchia Vhs ha fatto innamorare l’allora presidente Massimo Moratti, che nell’anno dell’arrivo di sua maestà Luis Nazario da Lima spende quelli che oggi sarebbero 20 milioni di euro (e all’epoca era una cifra assai consistente) per portare all’Inter questo ragazzotto uruguagio. Il 31 agosto 1997 a vedere Ronaldo a San Siro sono in oltre 80mila, ma a venti minuti dalla fine i nerazzurri sono sotto 1-0 con il Brescia. Disperato, Gigi Simoni manda in campo il ragazzotto, anche se sovrappeso è comunque il cocco del presidente, male che vada anche se perdiamo non mi mandano via, avrà pensato. E invece. Esterno sinistro sublime sul palo lontano da fuori area, punizione perfetta da ancora più lontano con palla all’incrocio: doppietta incredibile e Inter che vince 2-1. L’epifenomeno ha oscurato il Fenomeno.

C’è tempo per vedere anche questo, un gol da fermo, da cinquanta metri, contro l’Empoli, che sintetizza alla perfezione il concetto di rifiuto del lavoro: potrei, ma non voglio. Recoba è la sabbia negli ingranaggi del sistema del calcio italiano degli anni Novanta, quello dove venivano tutti i più grandi campioni e che dominava in Europa, quello delle plusvalenze, dei bilanci creativi e di società che sarebbero poi fallite miseramente. Anche il Chino si era falsificato un passaporto, o meglio Lele Oriali lo aveva fatto per lui, per ribadire che tutto quello che si vedeva era falso, e lui non voleva esserne complice. Lui al massimo dava spettacolo. Giocare con lentezza. Rifiutare il lavoro. Racconta sulla Gazzetta Mirko Graziano, che all’epoca seguiva l’Inter, che ad Appiano Gentile c’era il “tavolino Recoba”: approfittando della nebbia il ragazzo si sfilava dai giri di campo, si sedeva a fumare una sigaretta, poi con calma tornava in gruppo. Il ragazzo si farà, giuravano però i professionisti della fatica, e così viene mandato in prestito al Venezia.

Qui, forse perché respira la stessa aria decadente di Montevideo, tra le banchine dei porti colme di marinai e avventurieri, aristocratici e contrabbandieri, gioca i sei mesi più esaltanti della sua avventura europea, trascinando la squadra lagunare dagli abissi della retrocessione alla salvezza sulla terraferma. Sempre giocando con lentezza però. Alle barriere del Mose ci pensino gli altri, lui disegna arabeschi e tesse mosaici, come la tripletta alla Fiorentina. Quando torna all’Inter non trova più il mare, a Milano non c’è nemmeno la sabbia. Gioca sempre meno, anche se con Mancini riempie il palmares e con Moratti il portafoglio. Alla fine, in sette stagioni sono poco meno di 170 partite e 50 gol. E prima di congedarsi un altro gol assurdo, sempre contro l’Empoli, questa volta da calcio d’angolo. Poi dopo varie parentesi torna a Montevideo, dove i ritmi della vita e del pallone gli si addicono di più. Dove la sabbia è un piacere da assaggiare sotto i piedi bagnati e non qualcosa da gettare negli ingranaggi del sistema calcio per sabotarlo dall’interno. Perché il Chino, in epoca di spinte accelerazioniste, questo ci ha regalato: ci ha fatto riscoprire la gioia di giocare con lentezza.

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