Il 22 marzo il mondo si è fermato per guardare ai fatti tragici di Bruxelles. Tutto, nella “capitale d’Europa” sembrava essere in pericolo, la paura rendeva ogni luogo potenziale obiettivo sensibile. Il calcio si è fermato tutta la settimana, il ciclismo, che in Belgio è una vera religione, ha tremato ma ha proseguito per la sua strada. Il mercoledì successivo alle stragi è partita da Roeselare la Dwars Door Vlaanderen (attraverso le Fiandre). La stagione dei “muri” è stata inaugurata così, con una sicurezza rinforzata, un cerimoniale azzerato e, alla partenza di mezzogiorno, piede a terra e commemorazione delle vittime di Bruxelles. La domenica di Pasqua c’è stata la Gand-Wevelgem accompagnata dalle medesime ansie, forse accresciute dal giorno di ricorrenza religiosa e comunque resa triste dalla morte del ciclista belga Demoitiè. Sulle stesse strade si è appena conclusa la Tre Giorni di La Panne e domenica 3 aprile tocca al Giro delle Fiandre.

L’evento è delicatissimo perché è previsto, come sempre, un milione di tifosi sulla strada con il re Filippo a officiare l’edizione numero 100. Nonostante il “centenario” non potrà esserci il solito clima di festa proprio perché il terrore ha sfregiato il Belgio e minato le sicurezze di tutti. Anche il Giro delle Fiandre, che non si fermò nemmeno durante la Seconda Guerra Mondiale, trema. Il calcio si barrica, i tennisti scelgono di non giocare tornei in luoghi da loro reputati pericolosi e l’allerta per ogni evento sportivo si è innalzata. Nel ciclismo c’è qualcosa di diverso, è uno sport che invade le strade, uno sport che arriva nel vivo delle nostre città percorrendo centinaia di chilometri. Avrete capito che anche il più efficace dei sistemi di prevenzione non potrebbe garantire la sicurezza dei ciclisti e della gente che va ad applaudirli, anche per soli 10 secondi.

Se ci può essere un attacco più vile degli altri fra quelli dei terroristi di quest’epoca buia eccone un esempio, colpire in strada significherebbe volerle svuotare, voler privare una gara del suo pubblico, negare ai tifosi la vista dei campioni che, in futuro sceglierebbero percorsi meno prestigiosi ma più sicuri. Significherebbe svuotare uno sport della sua vitalità e della sua caratteristica peculiare, quella di mostrarsi su un terreno di gioco che è vicino a noi perché sono le nostre città, le nostre strade, le nostre piazze. Io, a tutto questo, talvolta, ci penso ma riesco subito ad allontanare dalla mia mente questi pensieri neri: trattenendo il fiato per un’azione di Cancellara, uno scatto di Sagan o per uno sprint serrato che dopo oltre 250 chilometri cambia la vita di un corridore e regala una giornata di gioia al suo tifoso.

La storia ci ricorda che la “fibra” del Giro delle Fiandre è robusta, come quella del suo popolo che, invaso nel 1939 con il re imprigionato e il governo in esilio, non interruppe la corsa. Per le Fiandre, già allora, era l’evento più importante dell’anno e non disputarlo sarebbe stato un segno di resa di fronte al nemico. In un volantino antitedesco che pare circolasse a quei tempi c’era scritto “Il Giro delle Fiandre è vessillo d’indipendenza e autonomia”. Nel 1943, l’idolo di casa, Achiel Buysse completò una tripletta mai riuscita fino ad allora e, dopo il traguardo fu osannato come un re da una folla enorme. La gente si riversò in strada sino a tarda sera sfidando il coprifuoco imposto dai tedeschi che non provarono nemmeno ad arginare questa folla che portava in trionfo un suo campione per esaltarne le gesta e palesare il proprio orgoglio nazionale di fronte all’oppressore. La storia insegna che dall’oscurità ci si può tirare fuori, talvolta, anche in sella a una bicicletta.

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