Fin dai primi mesi del governo Renzi, la titolare dello Sviluppo Economico aveva messo in più occasioni in chiaro che l'utilizzo dei giacimenti del Sud Italia sarebbe stato uno degli obiettivi principali del suo mandato. Il 4 giugno 2014 il capo del Mise enunciava il proprio 'manifesto programmatico' a Potenza: "E' necessario rimuovere gli intoppi che hanno creato un mancato collegamento tra greggio e sviluppo''. A dicembre nella legge di Stabilità entra l'incriminato "emendamento Tempa Rossa"
Basilicata e greggio. Estrazione di idrocarburi e quegli “intoppi” da rimuovere per creare un “collegamento tra greggio e sviluppo”. Il senso del ministro Federica Guidi per il petrolio parte da lontano, dai primi mesi nel governo Renzi, quando la titolare dello Sviluppo Economico mette in chiaro che lo sfruttamento dei giacimenti del Sud Italia sarà uno degli obiettivi principali del suo mandato, in particolar modo in Basilicata. Un’idea fissa, una volontà tenace che si concretizza a dicembre 2014 nell’emendamento infilato in fretta e furia nella legge di Stabilità 2015, con il quale si facilitava il via libera al progetto di estrazione di petrolio Tempa Rossa. A cui è interessato Gianluca Gemelli, che della Guidi è il compagno, fornitore in subappalto della Total, compagnia che possiede diversi pozzi nel giacimento petrolifero dell’alta Valle del Sauro.
E’ il 5 aprile 2014, un mese e mezzo dopo la nomina, e il neo ministro affida il proprio manifesto programmatico a un’intervista rilasciata al Mattino: “Non si può continuare a far finta di nulla sapendo che sotto i nostri piedi ci sono enormi potenzialità energetiche, giacimenti di gas e idrocarburi indispensabili a garantire energia allo sviluppo del Paese”, spiega la Guidi al quotidiano di Napoli commentando la proposta di incrementare la capacita’ estrattiva italiana avanzata in quei giorni da Romano Prodi. Dove? “Penso alla Basilicata – mette subito in chiaro il ministro – alle coste della Sicilia, al progetto del gasdotto Tap” in Puglia.
Non si può continuare a far finta di nulla, così il 9 aprile, in audizione alla Commissione Attività produttive della Camera e Industria del Senato, Guidi annunciava di voler “convocare il prima possibile un tavolo istituzionale” sulla questione energetica in Basilicata. Al tavolo, spiegava, siederà anche il presidente della Regione, “perché ne sia parte attiva e per avere un confronto istituzionale aperto, in modo da far diventare la regione un caso di scuola con la sinergia tra il governo e gli enti locali“.
Non capiva, il ministro, per quale motivo non fosse già partita la corsa all’oro nero e ci fosse addirittura chi chiedeva che i mari del Meridione non venissero trasformati in un enorme campo petrolifero. Non capiva e il 20 maggio affidava i suoi dubbi a un’intervista al Messaggero: abbiamo ”importanti giacimenti” di petrolio ”in diverse zone del Paese, molto spesso localizzate nelle regioni più svantaggiate del Mezzogiorno, che purtroppo sono fortemente sottoutilizzate”, premetteva la figlia di Guidalberto nominata ministro soli tre mesi prima: ”Non capisco perché dovremmo precluderci la possibilità di utilizzare queste risorse”.
Due settimane dopo il ministro sbarca nella terra promessa. La Basilicata ”è una regione strategica ed essenziale” per l’Italia, e ”noi dobbiamo essere in grado di fare impresa in ogni zona del Paese, sfruttando prima di tutto le peculiarità locali”, argomentava il 4 giugno il ministro, a Potenza, nel corso della riunione del tavolo per il rilancio delle intese fra Regione e Stato. Qual è la prima peculiarità locale cui pensa Federica? Ovvio, il suo petrolio: “E’ necessario rimuovere gli intoppi che hanno creato un mancato collegamento tra greggio e sviluppo”.
Tra gli intoppi anche quello delle autorizzazioni. Ne servono troppe, meglio un’autorizzazione unica concessa dal governo e in grado di scavalcare d’un colpo solo gli enti locali. Così la notte tra il 12 e il 13 dicembre 2014 il Mise consegna a Maria Elena Boschi, titolare dei Rapporti col Parlamento e gestore del traffico delle proposte governative, il cosiddetto “emendamento Tempa Rossa”, che tradotto in legge velocizzava il progetto della Total estendendo la semplificazione dell’autorizzazione unica alle opere necessarie per trasporto, stoccaggio, trasferimento di idrocarburi in raffineria. Facilitando lo sfruttamento del sito da parte della società con cui il suo compagno è in affari. E’ “l’amor che move il sole e le trivelle“, si direbbe parafrasando indegnamente il sommo poeta.
Una semplificazione che allarma ambientalisti e cittadini delle zone interessate dalle trivellazioni e diviene oggetto del quarto quesito del referendum contro le trivelle. Il governo, però, nella Legge di Stabilità del 2016 recepisce l’istanza e il quesito viene giudicato inammissibile. E, quindi, scompare dalla consultazione del 17 aprile prossimo. Il referendum arriva comunque al ministro come una folata di fumo negli occhi. Le proteste di Regioni, comuni e associazioni ambientaliste? I dubbi sull’impatto ambientale di possibili nuove trivellazioni ad opera delle compagnie cui il governo ha appena rinnovato le concessioni entro le 12 miglia? Rispedite al mittente a più riprese come “pregiudizi“, polemiche pretestuose”, “polverone strumentale”.
“In Italia non solo ci sono norme severissime“, spiegava Guidi il 12 gennaio sempre al Mattino, “dire che non si deve fare mai niente è assolutamente sbagliato: ci sono livelli amministrativi e ambientali che garantiscono severità e controlli al massimo livello possibile”. Poi però ci sono amministratori locali come Rosaria Vicino, 62 anni, ex sindaco Pd di Corleto Perticara, finita ai domiciliari nell’inchiesta, che sulla questione della sicurezza hanno le idee chiare. “E se un pozzo scoppia?”, domandava al primo cittadino Rocco Carone, il manager della Maersk H2S Safety Service Italia che riferisce di avere problemi con la Total proprio per l’affidamento del servizio di sicurezza all’interno della costruzione del pozzo: “None, a noi la sicurezza non ce ne fotte niente“, rispondeva la Vicino.