Di tanto in tanto la “trivellazione” delle inchieste giudiziarie fa sgorgare copioso il getto nero, oleoso e maleodorante dell’italica corruzione, i cui giacimenti intossicano le falde sotterranee della politica e dell’economia. Gli schizzi di petrolio dell’indagine potentina che hanno insudiciato l’elegante veste ministeriale di Federica Guidi, inducendone le dimissioni, disegnano i contorni ormai consueti di una micro-cricca di “imprenditori”, manager, committenti, contraenti, appaltatori e subappaltatori, faccendieri e politici impegnati nel saccheggio organizzato di risorse comuni.
La lettura delle intercettazioni rivela la prassi di una corruzione che si fa “politica” solo di sponda, poiché il suo tratto dominante è il fervore di un capitalismo familista-amorale. Imprenditori che, nel solco del Cavaliere di Arcore, “scendono in campo” trasferendovi integralmente il carico di tutti i loro interessi privati, personali e familiari, per i quali dunque la politica diventa essenzialmente prosecuzione degli affari con altri mezzi. E nella mercificazione della decisione politica – di cui la corruzione è suprema espressione – trovano il loro habitat naturale, perciò sanno muoversi con sicurezza in questo sottobosco, trovando sponde e complicità. Bottega (governativa) e famiglia si sovrappongono naturalmente, nel momento in cui la rimozione per decreto dei vincoli allo sfruttamento dei giacimenti di petrolio diventa – guarda caso – obiettivo di mandato della ex-Ministra dello sviluppo economico, e nel contempo “business plan” del compagno affarista. Sia chiaro: non sempre si è in presenza di una corruzione qualificabile come tale in termini giudizialmente rilevanti, perché la tangente si fa sempre più spesso impalpabile, diluita in un intreccio di relazioni opache, compensazioni incrociate e differite, scambi indiretti e “in natura”, circolarità di favori. Non soltanto il “do ut des” tra atto d’ufficio e mazzetta immaginato dal codice penale, quanto un comune conferimento di “disponibilità” a fornire risorse utili a imbastire e gestire sottobanco “affari” i cui proventi alla fine saranno ripartiti tra tutti.
È la conferma di un’avvenuta metamorfosi del leggendario principio della “mano invisibile” di Adam Smith, quella stessa mano che nel gioco della concorrenza di mercato dovrebbe convertire il perseguimento di interessi individuali in benessere collettivo, ma in questo capitalismo inquinato è assimilabile ormai alla mano lesta del borseggiatore. L’inchiesta potentina lo dimostra: quando agli operatori economici, in virtù della loro influenza sulla sfera politica, conviene “investire” sistematicamente in una gamma di pratiche illecite che includono false dichiarazioni, mancate comunicazioni, assunzioni clientelari, perizie truccate, o meglio ancora nell’approvazione parlamentare di emendamenti su misura, ne scaturisce un danno alla collettività che non è quantificabile soltanto in un controvalore economico, come accade quando viene gonfiato il prezzo degli appalti. Trova espressone soprattutto nel degrado ambientale, nell’allentarsi di vincoli e controlli a consumo di territorio, inquinamento atmosferico e marino, nell’accresciuto rischio di disastri e morti sul lavoro. Così, di fronte agli imprenditori ”che vogliono risparmiare soldi. Mò è arrivata la spending review pure…”, la risposta della sindachessa è lapidaria: “None, a noi la sicurezza non ce ne fotte niente. Ma non ci pensassero proprio, io gli blocco tutto”. Ciò che conta è soltanto che non si frappongano ostacoli all’assunzione dei suoi raccomandati: ““Vi servono due persone? Noi vi mandiamo due persone… No questi me li devi pigliare, bello. Senza se e senza ma. (…) Ho già detto a Total: se dobbiamo stare a guardare noi, starete a guardare tutti, non esce una carta da qua! Nessuna autorizzazione, niente! Se i nostri devono stare a guardare, non vogliamo lavorare!”
Secondo queste peculiare “etica degli affari” (illeciti) i contratti diventano contropartita dei contatti. E gli “imprenditori” somigliano sempre più a faccendieri: se hanno rapporti diretti coi politici – meglio ancora se il legame è familiare – possono capitalizzarle in rapporti contrattuali, così le loro fortune sono certe. Come racconta il compagno della ministra: “Gli ho presentato quelli di Italiani europei -poi è arrivata Federica, hanno parlato (…) erano lì che praticamente ci mancava il pannolino, ringraziamenti infiniti, alliccamenti che non ti dico”. E ancora: “gli ho presentato a Fede, tutto a posto, tutti contenti! … Quando c’è stato il convegno e c’erano questi qua della Total sì, minchia sì, lui…lui, quello del capo delle relazioni esterne… minchia compare… ti dico, quelli ce li abbiamo ce li abbiamo cioè secondo me, abbiamo un rapporto molto forte, il rapporto è buono… Hai capito!”
I rischi appaiono ormai risibili, non soltanto quelli penali. Nella lettura delle conversazioni questa pratica – qualificate come “traffico di influenze” nell’ipotesi accusatoria – è il pane quotidiano dei protagonisti, tanto da rendere inconcepibile lo stigma o l’ostracismo dei colleghi o delle associazioni di categoria: se la familiarità omertosa dei protagonisti definisce gli standard di condotta ritenuti accettabili, anche in caso di coinvolgimento nelle inchieste chi si indignerà tra i loro parigrado? Nessuno, o quasi, visto che la sensazione prevalente è che “così fan tutti”, o meglio: così fanno tutti quelli che ne hanno l’occasione e le abilità. La diagnosi è sconfortante, e spiega molto dell’inarrestabile declino del nostro sistema produttivo. L’incapacità di emanciparsi, o almeno di tentare di sottrarre le proprie fortune dall’ombrello rassicurante delle protezioni politiche, dei favoritismi, delle prebende, nel peggiore dei casi dei provvedimenti legislativi ad hoc, è il vero peccato originale della classe imprenditoriale italiana – della quale l’ex-ministra Guidi e il compagno inquisito sono emeriti rappresentanti, rispettivamente ex-presidentessa d ex- vicepresidente nazionali dell’associazione confindustriale giovanile. I degni campioni del capitalismo amorale all’italiana.