Stando a Repubblica, il governo vuole “consolidare” le già potenti Ferrovie (pubbliche) con il trasferimento nella sua orbita anche di Anas, altra spa statale che gestisce le strade e, come ente concedente, le concessioni autostradali. Fsi è interessata anche all’Atac, l’azienda romana dei trasporti in fallimento tecnico.
Iniziamo dall’unico aspetto positivo: il finanziamento delle strade statali, in questa ipotesi, sembra che avverrebbe attraverso l’allocazione fissa di una quota delle tasse sui carburanti, senza aumentarle (sono già le più alte d’Europa). Cioè le strade statali (investimenti e manutenzione) sarebbero pagate con un meccanismo abbastanza trasparente da chi le usa. Questo consentirebbe nel breve periodo di disporre di una certezza di risorse e nel lungo periodo, si spera, di estendere questo principio all’intero sistema stradale, abolendo l’assurda ed opaca distinzione tra strade statali e locali, oggi sotto-finanziate, e le autostrade, ricchissime a causa dei pedaggi esosi (e secretati), che hanno arricchito i concessionari pubblici e privati.
Ma perché affidare tutto questo alle Ferrovie? La teoria economica (e il buon senso) dicono che le imprese regolate (cioè non esposte alla concorrenza), pubbliche o private, dovrebbero avere “le minime dimensioni efficienti”, affinché non acquisiscano troppo potere rispetto al regolatore pubblico (in questo caso, l’Autorità dei Trasporti).
Per le stesse Fsi si sono prospettate, anche per questo motivo, ipotesi di “spezzatino”, proprio per diminuirne il potere di lobby. Ed anche in termini istituzionali, imprese interamente pubbliche, per ragioni di trasparenza e controllabilità, sarebbe meglio che non fossero delle spa, che presuppone obiettivi di profitto insensati quando l’origine dei ricavi sia essenzialmente pubblica, come per Anas: con uno Stato più generoso farebbe molti profitti, con uno avaro andrebbe in perdita. Una delle motivazioni della costituzione di spa pubbliche nel settore è stata di origine sindacale e di sottogoverno: gli stipendi e i salari possono essere più elevati, i controlli minori. E senza sottostare alla seccatura della concorrenza. Non esattamente una ricetta per l’efficienza.
Veniamo ora all’estensione ai trasporti urbani del perimetro di azione di Fsi (che gestisce e possiede la rete ferroviaria, e fornisce servizi passeggeri a livello locale e nazionale, e servizi merci, controllando il 90% del mercato: non soffre certo di nanismo, anzi). La teoria economica sconsiglia la “integrazione verticale di impresa dominante”: a una impresa che già dispone di un grande potere di mercato, non dovrebbe essere consentito di diventare ancora più potente, piuttosto il contrario (celebri i casi dei telefoni e delle società petrolifere Usa, o degli aeroporti di Londra, costretti allo “spezzatino” dal regolatore pubblico).
Qui il potere di lobby pubblica è ancora più evidente: la normativa europea ed italiana spinge verso soluzioni di affidamento al mercato per le imprese di trasporto locale (non inteso come libera concorrenza “all’inglese”, si badi, ma come affidamento in gara periodica delle concessioni, quindi tutelando appieno la socialità del servizio, se questa tutela fosse politicamente giudicata prioritaria). La “soluzione Fsi” andrebbe in direzione opposta: infatti tutti gli amministratori locali delle imprese peggio gestite auspicano tale soluzione all’unanime grido “solo Fsi ha la forza politica di ottenere soldi dallo Stato”. Hanno ragione, basta vedere i conti di Fsi nei decenni passati, con livelli di trasferimenti pubblici elevatissimi.
Non si tratta di una politica orientata al mercato: chi, un domani in gara, si sentirebbe di concorrere contro un gigante pubblico, politicamente protetto e garantito? Anche gli amministratori locali che hanno gestito in modo catastrofico le loro imprese di trasporto non dovrebbero risponderne a nessuno.
Il migliore dei mondi possibili.
Il Fatto Quotidiano, 3 aprile 2016