‘Il successo è l’abilità di passare da un fallimento all’altro senza perdere entusiasmo’. (Winston Churchill)
‘Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso’. (Che Guevara)
‘La sconfitta ha qualcosa di positivo: non è definitiva. In cambio, la vittoria ha qualcosa di negativo: non è mai definitiva’. (José Saramago)
E se il fine ultimo del giocatore incallito non fosse vincere ma giocare e tendere a perdere? E se proprio la sconfitta sia l’unica ricetta per far rimanere inalterato il gusto, la voglia, il brivido, l’adrenalina di una nuova puntata? E se la vincita sia da considerarsi come la fine dei giochi, l’orgasmo che soddisfa per un breve istante lasciando svuotati e senza meta, vaganti con gli occhi alla ricerca di un nuovo sollazzo che alzi la posta? Cos’è la vittoria quando inconsciamente cerchi, ti auspichi la perdita, quando giochi sperando di essere sempre il piccolo, fragile, debole uomo contro le forze immense del Destino, del Fato cattivo, del Dio che rema contro di te dalla notte dei tempi? La salvezza è rimanere ancorati alla certezza di essere perdente ma allo stesso tempo uno di quelli che non molla, che non cede il passo davanti alla angherie, ai soprusi della Fortuna che è bendata ma che ci vede benissimo quando deve punire gli ultimi della lista.
Se la sconfitta è consuetudine e rinsaldare delle credenze che ognuno ha applicato, ha appiccicato come figurine, sulla propria vita, un’improvvisa ed inattesa vittoria scardina ogni parametro, fa saltare i bulloni, spanare gli ingranaggi, distruggere tutto il costruito fino a quel momento. Se tutto quello che credevamo di essere, cioè defraudati dal Potere, vilipesi dalla Vita, emarginati dagli Agi, offesi dall’Esistenza, si ribalta, donandoti, regalandoti, mettendoti nelle mani l’asso pigliatutto che hai sempre sperato di tirar fuori dalla manica, il coniglio dal cilindro, la manna dal cielo, vai in crisi. Un crack valoriale che ribalta le intime convinzioni, infrange i sogni del perdente cronico che, secondo lui a ragione, può dar colpa agli eventi, può recriminare, può lamentarsi all’infinito trovando nell’etereo, nel nuvoloso, nella fumosa malasuerte un nemico invisibile e concreto, sempre presente e aleggiante, pronto come avvoltoio a posarsi sulla tua spalla. In qualche modo ti senti un prescelto, in una scala al contrario ma sempre un punto di riferimento, la punta di un iceberg da tutelare.
Ne ‘I giocatori’ di Mirò, testo che ha vinto il Premio Ubu ’13 come miglior spettacolo straniero in Italia, c’è tutto questo e molto di più. In un salotto claustrofobico che però è “la cosa che più si avvicina ad essere casa”, “quello che più si avvicina ad una famiglia”, non un salotto aristocratico né un salotto chic, ma tavolo e sedie attorno al quale rilanciare sul piatto frustrazioni e leggerezze, preoccupazioni e piccole risa a distogliere e rompere quel muro spesso di malinconia mista come calce di betoniera a tristezza rancorosa. Si respira aria beckettiana e spunti del teatro di Eduardo (il napoletano con una parola viola millenni, spacca la comprensione arrivando ad un grado più alto di consapevolezza semantica), fa capolino Pinter nei misteri che si celano, inutile nascondere il quasi omonimo titolo di Dostoevskij, le pellicole dedicate al poker di Pupi Avati, i romanzi sudamericani di Onetti colmi di disfatte, fallimenti annunciati, piccoli quotidiani disastri, lampi di Borges, la mestizia, lo sconforto di Galeano, la puzza dei b-movie all’italiana di rapine, poliziotti e Alfette sgassate e smarmittate all’inseguimento. Tutto è colorato ma sembra una festa triste, un funerale con lingue di Menelik, facce con gli angoli della bocca piegati verso il basso e coriandoli ad appiccicarsi su lacrime che faticano a scendere, seccatesi nell’abitudine al tracollo.
I soliti ignoti strampalati in salsa degradata e disperata partenopeo-iberica con un accor(d)ato quartetto, come i simboli delle carte, il balbuziente becchino con tic annessi, innamorato di una prostituta (Enrico Ianniello che ne cura anche la scorrevole traduzione e la regia di luci a sottolineare e chiaroscuri d’immobilismo ed empatia), il vecchio professore (“Morte di un matematico napoletano”?) che ha gettato anni di insegnamento con un gesto sconclusionato e dissennato (Marcello Romolo spicca nel caritatevole come nell’ira lussureggiante), il parrucchiere licenziato tradito dalla moglie (Luciano Saltarelli, “amico fragile” deandreiano), l’attore fallito con vuoti di memoria che ruba nei supermercati cercando di essere colto in flagrante (Tony Laudadio che incarna con lucido squilibrio e ironia l’intera filosofia del sottotesto). Poveri diavoli a fare gli equilibrismi su di un filo scivoloso e burroso senza alcuna protezione sotto. Il cip da mettere sul piatto sono le solitudini che le carte attutiscono o addirittura annullano per il tempo di queste brevi partite che sono aria nei polmoni come bombola di un sub a decine di metri sotto il livello di questo mare nero e torbido dove non si vede la fine, la luce.
Un popolo che ha perso la speranza, che gioca perché è l’unica cosa che è rimasta libera, il depresso sconsolato misero e frangibile contro il gigante del Caso che tutto può, Davide contro Golia in un’eterna lotta impari dove è quella risibile infinitesimale percentuale irrisoria che dà senso e luccicanza al gesto. Le carte, metafora delle loro squallide esistenze, sono l’asta per gettare il cuore oltre l’ostacolo, alla ricerca di quell’attimo, millimetrico insostenibile purissimo, quando verranno girate, voltate e mostreranno le loro vere facce, il seme che portano, la potenza del numero che si trascinano. È la partita la salvezza, non la vittoria finale, partite che i quattro non vorrebbero che finissero più in questo limbo dove niente può accadere perché tutto sta fuori nel ventre pericoloso della città. Perdenti che la vita ha emarginato ad essere tali e ad assumersi quel ruolo sociale, quell’incarico, quel fardello da portare come soma da passeggio perenne, perdenti alla ricerca di un padre che li guidi, che li curi, che li sgridi, che li prenda in un abbraccio di calore e dolore, di protezione e rimprovero, di bastone e carota, di schiaffi e carezze. I poveri teneri cristi (ci rispecchiamo in loro) sono costretti a vagare senza meta, spinti dal loro errare, che vuol dire sbagliare ma anche peregrinare, la summa del tentare, della curiosità, dell’essere vivi, disastrosi ma umani. Siamo gracili, friabili, fallaci, perché dolersene? I supereroi sono solo di celluloide.
Visto al Teatro Niccolini, Firenze, il 30 marzo 2016.