Ogni volta che torno a Berlino, torno al Reichstag. Nel 1945, alla fine della guerra, Berlino è stata ricostruita: ricostruita profondamente diversa dalla Berlino precedente, come a cancellare ogni traccia del nazismo. Della colpa. Ma non il Reichstag, il parlamento. Ristrutturato da Norman Foster. I suoi resti in pietra ora si incuneano tra il vetro, l’acciaio, l’acqua, la luce della città nuova. E ogni volta che torno, torno qui. Di là dal fiume, sull’erba, a guardare questa pietra come una cicatrice, come una ferita non nascosta, non rimossa, ma al contrario, lasciata alla vista – alla vita. Perché la verità è che la guerra non finisce mai. Come diceva Platone: Solo i morti conoscono la fine della guerra.
Per quanto tu possa sforzarti di ricostruirti diverso, la guerra non va più via. Ti rimane addosso. Una guerra è per sempre, è il suo tratto più distintivo. Il suo tratto più vero: ma anche quello di cui non parliamo mai. Nel senso: noi giornalisti. Siamo quelli che tutti vogliono invitare a cena, presentare agli amici, con questa vita un po’ da cinema, siamo quelli con mille avventure da raccontare: poi, a incontrarci davvero, siamo quasi tutti degli alcolizzati, tossicomani, paranoici, chi si fa di anfetamine, chi di Prozac, chi di qualsiasi cosa. Tutti pluridivorziati. Plurinaufragati. Quello che non parla da due anni, quello che da dieci anni non parla che di Cecenia. Quello tutto dolce che in realtà picchia le donne. Eppure è quello che non raccontiamo mai. Il trauma.
La guerra da cui non si torna: è quello di cui è vietato discutere, anche tra di noi. E non è solo il timore di perdere la propria credibilità – chi si fiderebbe di un’analisi sulla Libia scritta accanto a una bottiglia di vodka alle dieci del mattino? No. Al fondo è che non è da maschi veri. Da uomini tutti di un pezzo. Non devi mostrare segni di cedimento. Mai. E quindi stai tutto il giorno in mezzo ai morti, agli affamati, ai disperati: agli squilibrati, a gente che ammazza e festeggia: e poi la sera, imperturbabile, vai a berti una birra, a guardarti un film. Farti due chiacchiere come se niente fosse. Sono quelli di noi che non crollano perché in realtà sono già in macerie.
Quello che non raccontiamo, che non raccontiamo neppure a noi stessi, perché raccontarlo richiede molto più coraggio che stare al fronte, è l’aspetto più importante della guerra. Quello che omettiamo: è invece l’unica cosa davvero da dire. Perché fa comprendere quali siano gli effetti di una guerra. Fa comprendere come la guerra non sia mai uno strumento razionale, uno strumento con cui raggiungere un obiettivo, nonostante tutto, un caso di fine che giustifica i mezzi – mai, perché i suoi danni, i suo danni veri, non si possono riparare. E se devasta così noi, che siamo solo dei testimoni, alla fine, solo degli stranieri, quanto devasta i suoi protagonisti? No. Non c’è niente, dopo una guerra, che possa realmente essere ricostruito.
Perché tra sunniti e sciiti, serbi e croati si può trovare un accordo. Tra turchi e curdi. Ma la guerra non è quello: la guerra è quando vedi i siriani, gli afghani, al porto di Mersin, di Izmir, accalcarsi, spingersi, annegarsi a vicenda per conquistarsi un posto sulla barca – è quando capisci che non è questione di vittime e carnefici: che i ruoli si invertono, e in continuazione. Si ribaltano. La guerra è quando al fronte un altro giornalista, per arrivare prima di te, ti indica la strada sbagliata: e ti spedisce tra i cecchini. Quando capisci che non è vero, non è affatto vero, che a noi tutto questo non potrebbe succedere. Gli hutu, i tutsi – che sono mondi lontani. Mondi violenti e primitivi. La guerra è quando vedi la radice del male nell’indifferenza, nella disattenzione, nel cinismo, nell’egoismo di ogni giorno.
E capisci che non solo a noi certe cose potrebbero succedere: stanno già succedendo. La guerra è quando capisci che ci sei dentro. Che sei straniero, non estraneo. Uno dei migliori di noi si è trasferito qui, alcuni mesi fa. Un fotografo. Ha documentato giorno per giorno le guerre degli ultimi vent’anni: ed è completamente alcolizzato, adesso, dice cose che si avvolgono su se stesse, senza senso, dipinge, prevalentemente, dipinge quadri che sembrano macchie di colore e invece, a guardarli meglio, sono morti, morti e feriti – dipinge, e continua a scattare foto bellissime. Gli altri gli si avventano addosso, la preda caduta nella polvere. “Lascia perdere”, mi ha detto un altro fotografo. “L’avevo detto: non era adatto a questo mestiere. Non era abbastanza forte”. Vienitene via, mi ha detto. “Digli di chiamarsi uno psicologo. Vienitene a Idomeni” – perché tutti i nostri sentimenti, in queste settimane, sono per i rifugiati di Idomeni. In Grecia. Non abbiamo tempo per stare vicino a chi ci sta accanto. A chi è troppo debole per la guerra. O forse troppo onesto.