È uno dei concerti più famosi nella storia della musica, ma non fu neanche un concerto. E i brani eseguiti dal vivo, in quel luogo così ricco di storia, furono appena tre. Neanche eseguiti di fila, bensì prima suonati e subito dopo meticolosamente controllati dalla band con le cuffie: se non erano perfetti, assolutamente perfetti, andavano rifatti. Si torna a parlare di Live At Pompeii dei Pink Floyd perché il chitarrista (e co-leader) del gruppo David Gilmour tornerà a Pompei il 7 e 8 luglio. Live At Pompeii uscì nel 1974, quando i Pink Floyd erano all’apice della notorietà dopo il successo di Dark Side Of The Moon. Racconta però un momento molto diverso del gruppo, fotografato dopo Meddle e prima che la fama esplodesse appieno.
L’idea fu del regista Adrian Maben, che provò inizialmente a convincere Gilmour a scrivere musiche che si integrassero con immagini pittoriche. Gilmour declinò. Mesi dopo, nell’estate del 1971, Maben fu colpito dall’immagine dell’Anfiteatro Romano di Pompei al crepuscolo. Era lì con la fidanzata, per vacanza e perché lì credeva di aveva smarrito il passaporto giorni prima. Ebbe così l’idea di far suonare i Pink Floyd in quella location. Però senza pubblico. Grazie all’amicizia con un professore dell’Università di Napoli, Maben ottenne l’autorizzazione dalla Soprintendenza locale per sei giorni di riprese chiuse al pubblico. I Pink Floyd si impuntarono su due aspetti: i brani andavano eseguiti rigorosamente live e, per questo, occorreva trasportare via camion tutta la strumentazione, per garantire una qualità sonora equiparabile ai lavori in studio.
Arrivata a Pompei, la troupe di Maben si rese conto che non c’era corrente sufficiente. Si decise quindi di prenderla direttamente dal Municipio: un lunghissimo cavo percorse tutte le strade di Pompei, dal Municipio all’Anfiteatro. I giorni di lavorazione si ridussero da sei a quattro, dal 4 al 7 ottobre 1971. Di fatto Maben ottenne due sequenze forti: i quattro Pink Floyd che si arrampicano tra i vapori delle solfatare di Pozzuoli; e (solo) tre brani eseguiti dal vivo. Peraltro neanche integrali: Echoes e One Of These Days, tratti da Meddle, il loro disco più elegante e delicato, dove si sente particolarmente il tocco della coppia Gilmour-Wright; e A Saucerful of secrets, title track dell’album del 1968, all’interno del quale il diamante pazzo Syd Barrett non c’era già più (se non nella traccia Jugband Blues). Di Echoes, però, a Pompei il gruppo eseguì la prima metà e il finale.
Mancava la parte centrale. E non mancava solo quella. Il girato di Maben, per quanto qualitativamente alto, non era sufficiente per confezionare un film vero e proprio. In più il regista aveva terminato il budget, e ciò lo costrinse a ultimare il montaggio della prima versione (pre-Dark Side) a casa sua. Non fu l’unica sfiga che si abbatté su Maben. Molte bobine andarono distrutte, ed è anche per questo che in One Of These Days le immagini non staccano quasi mai da Nick Mason: era una delle poche sequenze del brano non andate perdute.
Per rimpolpare il materiale, Maben convinse il gruppo a girare altre immagini in uno studio cinematografico francese, l’Europasonor di Parigi, dal 13 al 20 dicembre del 1971. Maben cercò di ricostruire l’ambientazione di Pompei usando immagini di repertorio della Soprintendenza, oltre alle sequenze di Pozzuoli proiettate alle spalle della band. I Pink Floyd, a Parigi, suonarono Set the Controls for the Heart of the Sun, Careful with That Axe, Eugene e la sezione centrale di Echoes.
E’ opinione comune che le versioni di Echoes e A Saucerful of Secrets contenute in Live At Pompeii siano le migliori di sempre. Indimenticabile anche il Waters – qui fisicamente prossimo a un allucinatissimo uomo di Cro Magnon – che suona il gong in Set The Controls for the Heart of the Sun. Merita poi un capitolo a parte Careful with that Axe, Eugene. Canzone dalle mille vite, contiene uno degli urli più famosi e inquietanti di sempre. L’urlo belluino di Waters, con titolo diverso, confluì anche in Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni. La versione perfetta resta quella di Ummagumma: per Live at Pompeii Waters optò per una variante più “parlata” (si fa per dire: borbottata). Nessuno ha mai capito con chi ce l’avessero in quel brano: forse con un serial killer dei Sessanta (Eugene Craft), forse con il chitarrista dei Grateful Dead (Jerry Garcia) a cui mancavano due dita perché il fratello gliele aveva tranciate (appunto) con un’ascia. Bah: comprendere le meccaniche divine di Roger Waters è impossibile, ed è del resto una delle sue molteplici qualità.
Poiché sommamente insondabili, i Pink Floyd vollero anche eseguire a Parigi un divertissement contenuto in Meddle, ovvero Seamus, sorta di blues in cui a cantare (cioè ululare) è un cane di nome Seamus. Solo che, per il film, la canzone diventò Mademoiselle Nobs. Nobs era un levriero russo femmina, di proprietà di un’amica circense di Maben. Nel brano, fatto più unico che raro, Gilmour suona l’armonica. Era abbastanza? Non ancora. Dopo il montaggio casalingo, Maben si rese conto di avere sì e no un’ora di film. Un po’ poco. La sfortuna continuò tormentarlo, perché la prima del film, prevista il 25 novembre 1972 al Rainbow Theatre di Londra, saltò per “motivi burocratici”. Nel frattempo era arrivato il 1973 e i Pink Floyd stavano ultimando Dark Side Of The Moon negli studi di Abbey Road. Maben rimpolpò così Live At Pompeii con un mini-documentario a Abbey Road. Era il gennaio 1973 e l’album non era certo terminato. I quattro musicisti “recitarono” per Maben, suonando le loro parti sulle basi non ancora definitive: nessuna di quelle incisioni sarebbe poi finita su Dark Side Of The Moon. Maben raccolse poi qualche dichiarazione del gruppo, assieme ad alcune riprese della loro colazione in studio. La versione definitiva salì a 80 minuti: contiene, tra le altre cose, frammenti in studio di Us And Them e Brain Damage. Un’ulteriore versione, la Director’s Cut, è stata licenziata nel 2003. Live At Pompeii uscì nell’agosto 1974. I Pink Floyd erano molto più famosi di tre anni prima, quando l’opera prese corpo, ma questo non aiutò inizialmente il povero Maben: il suo film raccontava un gruppo che non esisteva più. O non più in quel modo.
Da Il Fatto Quotidiano di lunedì 4 aprile