Tre secoli prima di Freud e Pirandello, Shakespeare aveva abbondantemente indagato gli ambiti bui e misteriosi della psicanalisi, le pieghe della mente applicate al potere, i varchi, gli angoli tetri nascosti e indicibili, la lucida follia che ci forgia in un continuo braccio di ferro con l’opportunità sociale, con il controllo esterno a creare una pentola a pressione dallo scoppio deflagrante come un vulcano che si credeva domato e placato. Prendete il Riccardo III o l’Amleto, Macbeth o questo Re Lear che Roberto Bacci (ad ottobre dirigerà un ‘Don Giovanni’ a Cluj in Romania) disarma e disarciona dall’appellativo regale e lo rende uomo bieco, ciancicato dal tempo che lo ha frantumato, corroso, stritolato come cingoli di carrarmato.
Il teatro dell’oggi nostrano molto si interroga sul passaggio di consegne generazionali, sull’eredità e lascito dei padri, biologici o putativi, nei confronti dei figli, un rapporto che sempre più ha il retrogusto della battaglia, della guerriglia competitiva, i primi che vogliono sopravvivere alla Natura (la quarta età, la quinta età, le pastiglie blu, la giovinezza perenne, il benessere, i miglioramenti scientifici in campo medico), i secondi relegati ad una perenne gioventù senza responsabilità, senza oneri ma anche senza onori in un indefinibile infinito tempo che prolunga l’irrazionalità della gioventù anche fuori tempo massimo rendendoli fragili e ridicoli, patetici evergreen senza mordente.
L’allungamento della vita dei primi è stata la catastrofe dei secondi quando fino a non molti decenni fa malattie e guerre aiutavano il ricambio, l’arrivo di una nuova marea. Hanno visto così la luce in questi ultimi anni il ‘Parkin’son‘ di Giulio D’Anna, con il padre a danzare, ‘Scena Madre’ di Abbondanza-Bertoni con la genitrice, ‘Sul concetto di volto nel figlio di Dio’ di Romeo Castellucci, o all’estero ‘Vader’ dei belgi Peeping Tom ad indagare il contrappasso. Qui nel ‘Lear’ (il testo di Stefano Geraci ci immobilizza come chiodi sulla croce) di Bacci tutto scocca e ruota e avanza come spirale di serpente attorno al rapporto tra il vecchio re e la ripudiata e sincera figlia Cordelia. Salta il patto tra le generazioni.
Due le idee possenti che Bacci cavalca a pieno ritmo (‘Lear’sarà ad ottobre al Teatro della Pergola e nello stesso mese autunnale a Wroclaw in Polonia per ‘Le Olimpiadi del Teatro’), infila le mani in questa materia che rimane incandescente anche a distanza di secoli, di cenere sopra, di sovrastrutture lessicali e interpretative: Lear è qui una donna (Silvia Pasello come boa tra i flutti, energica nella malattia, nel terrore, nello spaesamento; esperimento già attuato con l’ Aspettando Godot beckettiano con la sorella, la scomparsa Luisa, prima che gli eredi del drammaturgo irlandese bloccassero la piece), ed i sette sipari che aprono la vista, ampliano e riducono la visuale, stringono e deformano come fossimo, analisi e autopsia, dentro la mente, ora nitida e abbagliata adesso opaca e offuscata, di questo re spodestato e vinto.
I sipari corrono su carrucole e fili e binari in un movimentato vento che sa di Tempesta imminente e pause e quiete e tregua prima di cominciare nuovamente a soffiare, paraventi sporchi di cartapesta pasticciata e fangosa che non impediscono la visuale ma la tagliano, la chiazzano, la impiastricciano come tavolozza di colori sfibrata da una pioggia acida scesa a scolorire, cancellare, impastare i cenci, gli stracci, le membra. I sipari sono porte e cancelli e sbarre, limbo e passaggio, i limiti e la progressione della follia, le fratture, le divisioni, le frontiere, la sabbia e le dune, le distanze, fisiche e metaforiche, il campo di battaglia, il deserto battuto e spazzato dalle folate violente della brezza.
Attuale Lear che potrebbe avere assonanze e derive con Pietro Maso o Erika e Omar, per abbassarci alla nostra cronaca dozzinale: “La tirannia della vecchiaia”, “Siete vecchio e allora siate saggio”, “Quando i vecchi cadono i giovani montano in sella” rendono l’affresco di un conflitto con se stessi da una parte, con il sangue del proprio sangue dall’altra. Le tre figlie luttuose (Caterina Simonelli-Goneril decisa, Silvia Tufano-Regan elegante, un po’ in sordina, e l’esordiente Maria Bacci Pasello-Cordelia, ha carattere, grinta e doti canore da non sottovalutare), tre sorelle distanti anni luce da quelle cechoviane, si stringono e legano i capelli in una treccia che porta il dono del continuum, del ponte rinsaldato, dell’attraversamento, ma è anche la morsa (esaustiva e caustica l’immagine di Cristina Gardumi), il cappio, lo strangolamento, il soffocamento, la chiusa sui rami secchi.
Tutt’attorno si muove una galassia di personaggi a dare sapore, a pungere d’acrilico: il fool- Michele Cipriani, buffone di rime un po’ Stregatto tradendo D’Annunzio, lievemente Signor Bonaventura che declama per proverbi, Gloucester-Francesco Puleo metronomo in scena a dettare geografie, tra Tiresia ed Edipo e quel “Alla luce” di Santeramo messo in scena proprio da Pontedera Teatro, i figli Edgar-Savino Paparella, voce gutturale che arriva dalle cavità più nascoste della terra, da grotte primordiali, a tratti assonanti con Vinicio Capossela, nudo e fangoso come nel cult ‘Mutando riposa’, Edmund-Tazio Torrini feroce che ben si districa. ‘I figli iniziano amando i loro genitori, poi li giudicano. Raramente, se non mai, li perdonano’, diceva Oscar Wilde, ma Kafka lo ammoniva: ‘I genitori che si aspettano riconoscenza dai figli (e alcuni addirittura la pretendono) sono come quegli usurai che rischiano volentieri il capitale per incassare gli interessi’.
‘Lear’, Fondazione Teatro della Toscana, prima nazionale, visto al Teatro Era, Pontedera, il 2 aprile 2016.
Foto di Roberto Palermo