“Sono stata investita da un forte odore di gas, non riuscivo a respirare, mi girava la testa e avvertivo una sensazione di nausea e smarrimento”. Durante la corsa verso il 118 la signora Franca vomitava e respirava a fatica. Un’altra lavoratrice viene soccorsa, messa sotto flebo e con maschera d’ossigeno, sempre per una fuga di acido solfidrico. Ne avrà per diversi giorni ma per i responsabili del Centro Oli di Viggiano indagati dalla Procura di Potenza erano solo malori occasionali, tanto che nessuna procedura per infortunio veniva aperta. “L’atteggiamento che il management Eni ha dimostrato in dette occasioni – scrive il gip – era orientato a una preordinata e accanita pervicacia nel nascondere la reale entità del problema ambientale e i rischi connessi alla salute dei lavoratori”.
E’ partita anche da qui, dal cuore dello stabilimento Cova di Viggiano e a indagini ancora aperte, la pista che porta ora i magistrati ad acquisire le cartelle cliniche della popolazione in tutta la Basilicata, con indagini epidemiologiche anche sui “bioindicatori”, ovvero su indicatori utili a dimostrare i possibili livelli di inquinamento sulle produzioni agricole locali e sugli allevamenti. L’intento è verificare con dati clinici quanto fossero dannose per la salute le reiezioni nei pozzi dei liquami tossici smaltiti come acque di produzione e le emissioni in eccesso alle prescrizioni di legge che venivano sistematicamente nascoste. In particolare quelle di anidride solforosa (H2S), sostanza tossica ad ampio spettro, che viene prodotta nel processo di estrazione e raffinazione del petrolio tramite combustione.
Un veleno insidioso, annotano i magistrati: concentrazioni modeste vengono avvertite dalla popolazione sotto forma di odore di uova marce e possono causare problemi neurologici, debolezza, svenimenti. Ad alte concentrazioni può essere anche letale ma non viene avvertito, perché le particelle paralizzano il senso dell’olfatto. La H2S entra nel corpo per inalazione, attraverso il cibo e l’acqua contaminati, attraverso la pelle provocando infiammazioni alla cornea, congiuntiviti, tosse. I processi di cicatrizzazione della pelle si rallentano, le dermatiti non passano. Le concentrazioni più alte possono portare alla perdita di coscienza e alla morte.
Ecco il senso di quello che vanno cercando i magistrati: la conferma dell’ipotesi di disastro ambientale con quelle più gravi legate alla compromissione della salute. Alcuni elementi, per la verità, sono stati già acquisiti e hanno messo in luce ancora una volta la spregiudicatezza dell’atteggiamento dei dirigenti dell’impianto Eni. I magistrati di Potenza ricostruiscono quattro episodi in cui altrettanti lavoratori del Centro Oli, nel 2014 e dunque in piena fase di indagine, si sentono male proprio a causa delle fuoriuscite di H2S dallo stabilimento lucano. Anche se la compagnia insiste la “qualità dell’aria ottima” e certificata.
I pm mettono in risalto un dato sconcertante, poi ripreso dal gip nell’ordinanza: in caso di malore del personale che prestava opera negli impianti i dirigenti si spendevano molto perché fossero ben seguiti, ma non per le loro condizioni di salute: “Nell’ambito degli incidenti legati all’inalazione di ammina o H2S”, scrivono i magistrati “si è appurato come l’unico intento degli indagati fosse quello di celare la causa del malore di cui erano stati vittima i lavoratori, evitando addirittura di aprire la procedura per infortunio sul lavoro”. Il ricatto, manco a dirlo, era il lavoro. “La moral suasion non ha funzionato. Il lavoratore ha aperto l’infortunio”, si legge nelle intercettazioni agli atti dell’inchiesta tra i titolari di una ditta di manutenzione e i responsabili del settore “salute e sicurezza” dell’Eni. Poi il referente della ditta, per compiacere i vertici di Eni, non procederà ad aprire la pratica, “consapevole che i vertici non gradiscono veder aumentare le statistiche degli infortuni all’interno dei loro impianti”.