Finita la fase delle blind auditions, l’unica con un minimo di appeal televisivo, è finito anche il già flebile interesse che The Voice of Italy innesca negli spettatori. Premessa necessaria: gli ascolti vanno bene, visto che anche ieri sera i telespettatori sono stati 2.415.000 (11,07% di share). Ma ciò non toglie che The Voice, dalle battle in poi, diventa qualcosa di molto preciso e facilmente descrivibile: un karaoke.
Prendi tre ragazzi pieni di sogni (e quasi sempre con una voce decente ma nulla più), li sbatti sul palco e fai cantare loro una canzone, un pezzetto per uno. L’effetto è, appunto, quello del Karaoke. Non quello di Fiorello (magari!), ma quello molto più misero del fratello Beppe o, peggio ancora, di Angelo Pintus. Sembra una festicciola di paese, soprattutto dal punto di vista musicale. Televisivamente, la fortuna di The Voice è avere un conduttore come Federico Russo, che ha il pregio di dare un ritmo e una chiave contemporanea a un format bollito. I coach non sono nemmeno così male, ma è il programma che non funziona, non ha mai funzionato e probabilmente non funzionerà mai. In fondo, quanti talenti ha sfornato The Voice of Italy? Zero.
Tornando ai giudici, la croce e delizia di questa edizione è Dolcenera. Più croce che delizia, in realtà, perché la cantante salentina è perennemente esagitata, iperattiva, iperemotiva. Una drama queen da premio Oscar, sempre in movimento, ieri sera persino in lacrime per aver eliminato due ragazzi. A un certo punto, mentre tre cantanti della sua squadra cantavano (malissimo) la splendida “La Fine” di Nesli, si è persino rannicchiata sugli scalini, in posizione fetale. Roba da Ragazze interrotte, da disagio massimo, da TSO. Ma questa Dolcenera tanto esaltata e poco esaltante, è anche uno dei pochi punti di interesse del programma. Non fosse altro che per vedere quanto in alto potrà ancora andare il tasso di disagio della Nostra.
La gara ha pochissimo da dire. Ci sono due o tre voci davvero interessanti su alcune decine, magari qualcuno potrebbe persino vendere dischi. Sempre ammesso che non vinca una novella Suor Cristina o un altro anonimo Fabio Curto. Se poi i giudici confezionano arrangiamenti osceni e novecenteschi, allora le speranze si riducono al lumicino. Raffaella Carrà, per esempio, ha obbligato tre scappati di casa a cantare una improponibile versione swing di “Tutta mia la città” dell’Equipe 84. Il risultato è stato un flashback spaventoso che si ha riportati a Forte Forte Forte. E tanto basta per generare un panico senza fine.
The Voice, nonostante i buoni risultati di audience e un cast migliore rispetto agli anni scorsi, continua a essere un programma concepito male e realizzato peggio. Il problema è il format originale, non tanto l’adattamento italiano. Amici e X Factor sfornano talenti (o “prodotti musicali”) che comunque vendono dischi. E da un talent show ci si aspetta questo, non scoprire un meraviglioso cantautore intimista che poi non vende nemmeno una copia. Se questo a The Voice non succede, chiediamoci perché. Anzi, se lo chiedano critici musicali e discografici, ché sono del ramo. Televisivamente, la solfa non cambia: programma lunghissimo, noioso, con una formula che non tira. Federico Russo e i coach (persino l’urticante Dolcenera) limitano i danni, ma il risultato è comunque deludente. Assai.