Centoquaranta morti ancora in attesa di una risposta che, dopo un quarto di secolo, ancora non arriva. Su quella notte di venticinque anni fa, la notte del 10 aprile 1991, in cui il traghetto Moby Prince rimase coinvolto in un incidente mai chiarito nella rada del porto di Livorno. “Mi chiedo come mai nelle comunicazioni di quella notte Livorno Radio, soggetto incaricato di pubblico servizio e gestore delle telecomunicazioni, resta in silenzio e non chiama il Moby Prince“. Gregorio De Falco, l’uomo del “salga a bordo c…”, quella notte di 25 anni fa, non era ancora in Marina. Ma, a distanza di anni, dopo aver lavorato proprio alla capitaneria di porto livornese ed esser divenuto noto a causa di un’altra tragedia del mare, quella del naufragio della Costa Concordia, si espone nuovamente in merito al misterioso incidente di cui in questi giorni ricorre l’anniversario.

“L’Italia – dice il comandante – dovrebbe chiedersi quali sono stati i meriti di Sergio Albanese, allora comandante della capitaneria di Livorno, per diventare ammiraglio subito dopo la tragedia del Moby Prince. Qual è stato il gesto encomiabile che gli è valso l’avanzamento di carriera? È pazzesco che sia rimasto fuori dai processi e siano finiti alla sbarra suoi subalterni. E tra l’altro non è che quella notte non abbia agito in prima persona visto che uscì in mare con una motovedetta”.

“All’epoca – spiega ancora l’ufficiale in merito a quella notte – si avevano apparati di trasmissione pessimi e non era facile comunicare a due-tre miglia. Ma perché non è intervenuta Livorno Radio che aveva apparati sofisticati e che aveva l’obbligo dell’ascolto radio di sicurezza? Mi ha sorpreso che questo aspetto non sia stato messo in rilievo neppure durante le indagini della magistratura”. Di allora, ricorda, “mi colpì il commento di Paolo Frajese, qualche giorno dopo durante il Tg1 mostrando un video che mostra una palla di fuoco alle spalle della petroliera, affermò: ‘si vede chiaramente il riflesso in mare della petroliera quindi la nebbia non c’è'”.

Secondo De Falco la vicenda Moby Prince e quella della Costa Concordia “non sono paragonabili”. Le modalità di conduzione delle due operazioni di soccorso “sono enormemente distanti” ma, sottolinea, sul piano della sicurezza in mare c’è ancora molto da fare sebbene “in conseguenza del Concordia qualcosa dal punto di vista normativo è stato modificato”.

Moby Prince. La ‘ustica del mare’. I familiari delle vittime l’hanno chiamata anche l’’Ustica del mare’: nessun colpevole, tanti misteri. Di certo è la più grande tragedia della marina mercantile italiana: 140 morti, 75 passeggeri e 65 membri dell’equipaggio, un unico sopravvissuto, il mozzo Alessio Bertrand che si salvò rimanendo aggrappato a una balaustra e che ha scelto l’oblio: “Non voglio parlare, perché se parlo sto male”, ha detto all’Ansa.

Domenica 10 aprile sarà il venticinquesimo anniversario del disastro del Moby Prince, il traghetto della Navarma che alle 22:03 del 10 aprile del 1991 mollò gli ormeggi a Livorno diretto a Olbia. Meno di mezz’ora dopo, quando ancora si trovava nella rada del porto toscano, la collisione con la petroliera Agip Abruzzo, la prima nave ad essere soccorsa, nessuna vittima tra quanti erano a bordo. Per quasi un’ora invece nessuno si accorse che il Moby era alla deriva completamente avvolto dalle fiamme. Dal traghetto fu lanciato, alle 22:26, il may day: “Siamo in collisione… siamo in fiamme… occorrono i vigili del fuoco… compamare se non ci aiuti prendiamo fuoco”. Ma alla sala radio della capitaneria di porto di Livorno arrivò un segnale debolissimo e non fu sentito. Diverse le risposte dei consulenti su quanto durò la vita dopo la collisione: meno di 20 minuti per la perizia disposta dal tribunale, ore secondo gli esperti delle parti civili.

Errore umano e nebbia, le cause del disastro per i magistrati che via via si sono occupati della tragedia: tre le inchieste, due i processi. Una ‘verità’ giuridica che non ha mai accontentato i familiari delle vittime – riuniti nelle associazioni ’10 aprile’, presieduta da Luchino Chessa, uno dei figli del comandante del Moby Ugo Chessa, e ‘140’, guidata da Loris Rispoli che perse la sorella Liana – che ora si aggrappano alla commissione parlamentare d’inchiesta, istituita l’anno scorso, per chiedere e ottenere finalmente giustizia, per chiarire i tanti dubbi sul perché della strage. Per la quale si indagò anche su una possibile esplosione per un ordigno a bordo del Moby mentre inchieste giornalistiche ipotizzarono pure collegamenti con il delitto di Ilaria Alpi.

Archiviata senza colpevoli e senza accertare fatti nuovi anche l’inchiesta-bis conclusasi 5 anni fa. Fu aperta su istanza dell’avvocato Carlo Palermo, legale di Chessa, che prospettava un complesso scenario con navi militari e militarizzate americane, di rientro dalla prima guerra del Golfo, impegnate a movimentare armi nel porto livornese. Indizi che però non hanno trovato riscontri secondo i magistrati a cui giudizio quanto accadde al Moby Prince, che “navigava senza le necessarie misure di sicurezza”, fu dovuto a errore umano e nebbia.

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