L'analisi contenuta nel progetto CoCoNet, finanziato dall’Unione Europea: cosa accadrebbe in caso di un imprevisto in fase estrattiva o in fase di trasporto? A causa dell’andamento delle correnti marine, l'entità monetaria del danno che verrebbe a crearsi è, secondo gli esperti, "incalcolabile"
“Un incidente petrolifero? Va messo in conto. E i danni non sarebbero limitati al litorale italiano, ma causerebbero un disastro nell’intero Mediterraneo orientale, con costi ambientali incalcolabili”.
Ferdinando Boero parla con cognizione di causa. È docente di Zoologia e Biologia Marina all’Università del Salento, associato all’Istituto di Scienze Marine del Cnr ed è uno dei massimi esperti italiani di biodiversità marina e funzionamento degli ecosistemi. Mostra una cartina: frecce che si rincorrono, correnti, inabissamenti. In tempi non sospetti, ha svolto simulazioni per dimostrare cosa potrebbe accadere in caso di perdite di idrocarburi da petroliere in transito nel basso Adriatico.
Poi, specie in Puglia, è arrivata la pioggia di richieste di permessi di ricerca dell’oro nero una spanna più avanti delle 12 miglia. Colossi americani, soprattutto. “La realtà che supera l’immaginazione”, sorride il professore. È una battaglia, quella, ancora in corso nell’ambito delle procedure di valutazione di impatto ambientale pendenti. Nel frattempo, restano i rischi legati alle piattaforme già attive al di qua e al di là di quel limite di 12 miglia lungo tutto il mar Adriatico. Lo dice CoCoNet, il progetto coordinato dallo stesso Boero e finanziato con 11 milioni di euro dall’Ue per la realizzazione di reti di aree marine protette nel Mediterraneo e nel Mar Nero, oltre che per lo studio di fattibilità di installazione lì di piattaforme eoliche offshore come fonte di energia pulita. Nell’ambito di CoCoNet, la ricerca pilota sulle perdite di idrocarburi, sconosciuta ai più, si è concentrata sull’Adriatico meridionale, che è lo snodo fondamentale, il luogo in cui si ha il fenomeno di sprofondamento delle acque dense nord adriatiche nella pancia dello Ionio. È quello, insomma, il punto di transito del movimento d’acqua che dà vita agli abissi del Mediterraneo. Cosa accadrebbe in caso di incidenti in fase estrattiva o in fase di trasporto? La risposta è nel gioco di correnti marine.
Ciò si evita grazie al rinnovamento delle acque profonde. Avviene tramite i “motori freddi”. Nel Golfo del Leone, per il Mediterraneo occidentale, e nel nord Adriatico, per quello orientale, i venti freddi causano aumenti di salinità e diminuzioni di temperatura. Questo porta alla formazione di acque dense superficiali, che tendono a scorrere verso i fondali più profondi, portandovi ossigeno e spingendo verso l’alto le acque che ne sono carenti, perché possano riossigenarsi. Dall’Adriatico settentrionale, quelle acque seguono due autostrade marine, una prossima alle coste albanesi e l’altra a quelle italiane, attraverso il Canyon di Bari e il Canale d’Otranto. Da lì, si inabissano nello Ionio, raggiungendo le massime profondità, che toccano il picco dei 5mila metri nella fossa del Peloponneso.
È grazie a questo flusso che, ad esempio, possono prosperare i coralli bianchi ionici e quelli ritrovati di recente nel basso Adriatico. Lo stesso copione si ripete, ma con importanza ritenuta minore, a partire dal nord Egeo. “È chiaro dunque – spiega Boero – che se nell’Adriatico dovesse verificarsi un incidente, il petrolio andrebbe a inserirsi nella corrente che alimenta la parte più profonda del Mediterraneo, che invece di ricevere ossigeno riceverebbe idrocarburi. L’eventualità che questo accada non può essere esclusa. Calcolare l’entità monetaria dei danni causati da una simile eventualità è sterile: non ci sono soldi che possano ripagare gli ambienti che sarebbero gravemente danneggiati”.