Milano – ‘Durante il Concilio Vaticano II, la venerazione di San Gennaro fu limitata in ambito locale, in pratica fu declassato come Santo “di serie b”. IN pochi giorni sui muri della città apparve la scritta: “San Gennà, futtetenne!’.
Affibbiare l’appellativo di ‘contraddizione’ a Napoli è una delle tante scempiaggini e banalità che, per classificare l’inclassificabile, appone chi non è di Napoli alla città del Vesuvio. Mille appellativi per inquadrare ciò che non può stare in nessuna casella o frangia o lista o scatola perché sfugge da ogni parte, scappa ad ogni definizione. Che anzi attira a sé gli antipodi, gli estremi, la poesia e la ferocia, il mare e il fuoco, le parole arrotondate e quelle spizzate aggrumate appuntite, la bellezza infinita e il desolante deprimente distrutto affranto. Tutto convive, affresco e salsedine. Ma Napoli è, non la puoi spiegare, non la puoi raccontare, ‘è come la vita, la devi attraversare’. E millenni non bastano per sentire ogni sapore, ogni odore e puzza, vedere panni stesi e grotte sotterranee salvavita, terrazzi che guardano oltre e bassi con le finestre murate.
Pare che Napoli, fuori da Napoli, sia un racconto folcloristico fatto di pezzi, un mosaico dove convivono leggende spacciate per verità e verità enormi credute leggende, curiosità come se fosse un almanacco di esperienze tutte immancabilmente fuori dall’ordinario, straordinarie tanto nel bene quanto nel male. ‘Né gioia né genio’. Ci volevano due napoletani, così diversi come Mimmo Borrelli, attore e drammaturgo che imprime la sua lingua fatta di ricerche storiografiche che si perdono nei secoli e nei vicoli, e Roberto Saviano, partito con la sua vespina a documentare i campi delle discariche o lo spaccio di cocaina e salito alla ribalta con il suo bestseller, che lo ha esaltato, che lo ha di fatto ‘esiliato’. Due Ulisse a ‘naufragar m’è dolce in questo mare’.
Ecco, proprio ‘Gomorra‘, per Saviano, può essere l’emblema di Napoli, una stessa cosa che diventa prima delizia e poi croce, emancipazione e condanna, vittoria e paura. Questa materia, questo bolo, questo ‘grumo’, parola più volte usata in ‘Sanghenapule‘ (produzione Piccolo Teatro) è inscindibile, ha dentro il caldo e il gelo ed è impossibile poter pensare di rompere, tagliare, sezionare, togliere, levare, disincagliare il frumento dalla gramigna che convivono sullo stesso campo, adesso fiorente ora di battaglia. E si passano il testimone, ognuno con la sua lingua e il suo modo di stare e di intendere il teatro, la narrazione in un anfiteatro pietroso, tra tiara e bastone da pastone, un altare centrale in questo viaggio dalle viscere del Vesuvio fino alle profondità del golfo, l’impasto di lava e sale tra i denti che stridono di sorrisi e tragedie, stringerli e sentire il fruscio, il gesso rotto sulla lavagna.
Borrelli è carne a tocchi da trancio sul tagliere a blocchi e mannaia, è mercurio e argento vivo, è Braveheart nella sua haka finale rappata furibonda da pelle d’oca, è pieno, riempie di peso, gesto, parola, il suo è un corpo a corpo a terra, mani nude e forza viscerale, ha un’animalità onomatopeica e bruta che gli arriva da lontano, dai canti gutturali e dai riti propiziatori, da gole e gallerie, è eroe impetuoso senza argini, non scorre ma intacca tracima esonda ingloba spazza al suo passaggio, impossibile rimanergli indifferente nel suo trascinare e travolgere, spezzare ogni forma di resistenza davanti a queste sue parole che pungono e fanno male, feriscono senza mezzi termini. Napoli non chiede permesso, non ha bisogno delle buone maniere per infilartisi sotto pelle. Saviano passeggia tra documenti come un canto e dati in una nenia spigolosa che coccola riportando alla luce non tanto le credenze collegate a San Gennaro ma quanto il Santo sia intimamente connesso, sia un napoletano, uno di loro, che vede e perdona, che conosce gli anfratti bui, che giustifica ma non è né buonista né consolatorio, che sa che i veri peccati terreni sono ben altri. Potrebbe trattarsi di un santo a immagine e somiglianza di chi lo prega e lo invoca, costruito pazientemente nei secoli, che adatta le regole.
San Gennaro c’è, è presente, si respira, si avverte, lo puoi toccare, annusare tra le strade e i lumini, sentirne la consistenza, tastarne i passi. E il miracolo del sangue che si scioglie, che ancora nessun scienziato ha stabilito se si tratti di mano divina o di sotterfugio falso, e indica e prevede e predice il futuro imminente, i segni del destino. Napoli è l’incertezza del Vesuvio che ti guarda e protegge e ammonisce che tutto è breve, Napoli che si dice innalzata su di un uovo e per questo traballante ma prodigiosa in un equilibrio instabile per sua stessa natura, una tela fragile esposta continuamente ad ogni tipo di intemperie.
Nella grande metafora del sangue come linfa, l’emorragia come perdita, fuga, abbandono di un popolo che si può riassumere nella parola ‘emigrazione’, Saviano ci conduce nelle pieghe di questa condizione precaria, sfuggente, disarmante, impotente dove ogni forza rema contro, dove è impossibile farcela ma non per questo i napoletani si immobilizzano, si immolano alla sconfitta. Sconfitta che è parte integrante nel dna di Napoli, la Napoli derubata e colonizzata da ogni popolo straniero ed etnia per fare man bassa e trucioli, e ogni volta rinata, risorta sulle sue gambe claudicanti, eternamente innamorata, perpetuamente violentata. La Napoli degli intellettuali che influenzarono la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America come la Repubblica Francese, la Napoli degli infiniti disgraziati che salpavano senza trovare né fortuna né una vita degna e decorosa.
Per questo San Gennaro è il santo anche dei migranti, di chi va, di chi non può restare, come Saviano appunto, un Santo che accoglie ma non fa giri di parole, è terreno, quotidiano, ‘sanguigno’, è più un amico confessore, uno che può tranquillamente darti una pacca robusta sulla spalla o trasformarla in sberla. E il suo sangue è il simbolo di questa città gioiello e terribile, paradisiaca e temibile, celestiale e funesta, piena sopra e svuotata sotto e dentro la sua pancia, colorata e tetra: il liquido rosso è la vita che ribadisce se stessa, è rinascita e resurrezione, è stimolo a farcela: ‘Finché sei in vita è tutto un tentare di sciogliere i grumi, in maniera così forte da farti dimenticare che non ci riuscirai’. In questo elastico, in questo tiro alla fune, tra la nascita e la morte, sta tutto qui, in questo gioco di leggerezza e profondità. Siamo tutti napoletani.
Visto al Piccolo Teatro, Milano, il 5 aprile 2016