“Reclutamento in carcere, 500 minori a rischio Jihad”, titola oggi Repubblica attribuendo la frase virgolettata al procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Gli ultimi dati pubblicati sul sito del Ministero della Giustizia, tuttavia, ci dicono che, a oggi, le carceri minorili ospitano solo 449 detenuti in tutta Italia e che di questi solo 174 sono effettivamente minorenni.

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Se poi leggiamo le parole di Roberti nel corpo dell’intervista, correggiamo solo parzialmente l’informazione: “Cito un dato allarmante che mi è stato trasmesso pochi giorni fa: metà dei reclusi nei penitenziari minorili italiani sono musulmani. In cella ci sono circa cinquecento ragazzi, abituati a stare su Internet come tutti i loro coetanei. E per questo possono facilmente entrare in contatto con i siti che predicano la Jihad: sono a rischio altissimo di radicalizzazione”. Effettivamente in cella ci sono circa (molto circa) 500 ragazzi, non tutti minori, ma non sono affatto abituati a stare su internet e ad entrare in contatto con i siti jihadisti. In carcere il web non si usa affatto, se non per lodevoli eccezioni comunque sempre estremamente controllate e supervisionate.

Se diamo inoltre uno sguardo alle nazionalità vediamo che, dei 441 ragazzi presenti nelle nostre carceri al 31 dicembre 2015, 244 erano italiani e 54 provenivano da altri paesi Ue a presenza musulmana residuale. 12 erano serbi, 4 moldovi, 10 provenivano dal continente americano. Dei 500 menzionati dal procuratore e dal titolo di Repubblica rimbalzato qua e là, ne rimangono 117, che oltre a non andare su internet non si vede perché debbano essere pregiudizialmente considerati “a rischio altissimo di radicalizzazione”.

Apprezzo molto le parole di Roberti quando, nella stessa intervista, afferma che “bisogna rispondere garantendo diritti: abolire il reato di immigrazione clandestina, ridurre le attese per le domande d’asilo, combattere lo sfruttamento dei lavoratori extracomunitari”. Continuiamo su questa linea, fuori e dentro le carceri. In procuratore parla di un “dato allarmante” che non c’è. Ci sono invece dei ragazzi. Ci sono dei ragazzi che i bravissimi operatori che lavorano nelle carceri minorili sapranno ben gestire, sapranno aiutare a reintegrarsi nel tessuto della scuola, della formazione, del lavoro, delle relazioni famigliari. Ci sono dei ragazzi che dobbiamo convincere a non tornare più a delinquere attraverso l’esempio di noi adulti, dell’istituzione che hanno attorno, garantendo loro diritti e inserendoli in un modello educativo. Ci sono dei ragazzi da affrontare attraverso il dialogo. Ci sono dei ragazzi che non possiamo permetterci di etichettare come potenziali terroristi.

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