Due ragazzi in tuta da laboratorio avvolgono un’anguria con degli elastici. Vanno avanti così per quarantacinque minuti, allontanandosi progressivamente dal frutto. Dietro di loro, un pubblico attende. Elastico dopo elastico, improvvisamente l’anguria esplode, scatenando l’ilarità dei presenti. Ecco, questa è la trama della diretta più vista su Facebook da quando la piattaforma ha lanciato l’opzione live: l’anguria di Buzzfeed, per molti vero e proprio paradigma di cosa sta diventando, sempre più spesso, il palinsesto delle testate giornalistiche sui social. E se ne è discusso anche alla decima edizione del Festival Internazionale del giornalismo, insieme a molti altri spunti su una professione in piena trasformazione ed un’industria ancora nel mezzo del guado, lontana dall’approdo ad un modello di business in grado di sostituire quello tradizionale, ormai obsoleto e in perdita, basato sulle inserzioni pubblicitarie.

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“Nei prossimi cinque anni si connetterà alla rete un miliardo di nuovi utenti e lo farà tramite smartphone”. A sottolineare con queste parole la sempre più marcata centralità del dispositivo mobile è stato l’editor della Bbc Trushar Barot nel panel “giornalismo e Silicon valley“. “Molti di questi nuovi utenti proverranno dall’Africa”, ha proseguito. “Un tipo del tutto nuovo di internauti che avrà molta più dimestichezza con Whatsapp che con Facebook, perché troverà molto più semplice avere un numero di telefono che una mail con un nome e un cognome. La loro esperienza della rete sarà quindi molto diversa da quella tradizionale e anche un canale globale come il nostro dovrà lavorare molto se vorrà raggiungere questo target da mobile oltre che da tv”.

Lo stesso tema è riecheggiato poi in tanti interventi di altri panel. Luca Forlin, responsabile partnership strategiche di Google per l’informazione, lo ha evidenziato intervenendo nell’incontro “Come è cambiata la diffusione delle news”. “Nel giro di tre anni” rileva Forlin “l’80% del traffico si è spostato su dispositivi mobili. Attenzione però, non pensate che questo succeda solo sui mezzi pubblici: le persone controllano lo smartphone continuamente anche mentre guardano la tv la sera. La sfida dunque è fornire a queste persone contenuti di valore, l’articolo e la pubblicità giusti per il pubblico realmente interessato in quel momento”.

Un approccio che richiede al giornalista del terzo millennio versatilità, conoscenze multidisciplinari e un costante orientamento alla soddisfazione finale dell’utente. Il quale, di fatto, ha molto più potere perché il web gli ha conferito un vaglio di opzioni molto più ampio. Se ne è discusso a proposito di “Newsroom creative e nuove idee per il giornalismo”, nel quale Florian Eder, reporter di Politico Europe, ha dichiarato senza mezzi termini che ad oggi le redazioni sono invece “uno dei posti peggiori per pensare alla user experience”. “C’è un’opinione diffusa che il giornalista non debba preoccuparsi di produrre qualcosa di vendibile” ha proseguito Eder “e invece occorre davvero riorientare la nostra attenzione alla produzione di qualcosa di veramente creativo ed ottimizzato per il nostro pubblico”. E’ quella che Aaron Pilhofer del Guardian ha definito “connective issue”: la necessità di un modello di organizzazione del lavoro in cui, dal primo giorno, a lavorare sul reportage finale sia un team composto da un cronista, uno sviluppatore del prodotto e un rappresentante del settore commerciale della testata. Tra le conseguenze concrete di questo nuovo approccio, anche l’obbligo di considerare che spesso gli utenti si connettono con device mobili e quindi hanno connessioni lente, inadatte ai video in alta definizione che invece tanto piacciono a editori e inserzionisti.

Quali le formule adottate dagli editori per sopravvivere in questo ecosistema?  Come detto, uno dei modelli è Buzzfeed, testata che sui social pubblica contenuti “nativi”, ovvero confezionati esclusivamente per quelle piattaforme e principalmente di carattere entertainment. Un esempio? Il format gastronomico “Tasty”. Ma c’è chi studia anche modelli alternativi, nati per intercettare un pubblico che ha ancora sete di notizie e di analisi dei fatti in grado di sfondare i muri virtuali della dittatura degli algoritmi. E’ il caso, ad esempio, della testata tedesca Piqd, del magazine di Rob Orchard, della newsletter italiana Slow-news. Si chiama slow journalism ed è l’idea di una rivoluzione che parta da una nuova consapevolezza di giornalisti e lettori. Informarsi può non significare affatto seguire il flusso perpetuo delle breaking news, ma molto più probabilmente coincide con l’attesa di una analisi ponderata dei fatti, formulata a una distanza temporale congrua e con un formato giornalistico lungo. Una rivoluzione della lentezza che potrebbe avere molto a che fare con la qualità della nostra “dieta” informativa.

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