Camillo Graziano è accusato di associazione mafiosa e non è un collaboratore di giustizia. Ma davanti ai giudici di Palermo, replicando alla deposizione di Vito Galatolo, ha spiegato come era stata organizzata la trappola per assassinare il pm della trattativa Stato-mafia. Attraverso un pentito-esca
Non è un pentito, non è un collaboratore di giustizia: eppure ha preso la parola davanti ai giudici per confermare che un progetto di attentato contro il pm Nino Di Matteo effettivamente esisteva. E’ quello che è successo davanti alla quarta sezione del tribunale di Palermo, che sta celebrando il maxiprocesso Apocalisse, ormai arrivato alle battute finali (la sentenza per i 104 imputati è prevista per domani). Il pentito Vito Galatolo ha appena finito la sua lunga deposizione, raccontando nei dettagli il piano messo in atto dai boss di Palermo contro il pm della trattativa Stato-mafia. Secondo Galatolo, tre erano i progetti di morte ipotizzati per assassinare Di Matteo e uno di questi prevedeva la collaborazione di un altro pentito per attirare il magistrato in una trappola: Salvatore Cucuzza avrebbe, infatti, chiesto di essere ascoltato dal pm per rivelare alcune informazioni sulla trattativa, e a quel punto sarebbe scattato l’agguato mortale dei killer di Cosa nostra. Un’idea che, secondo il rampollo dell’Acquasanta, sarebbe stata suggerita da Camillo Graziano, 49 anni, nipote di Vincenzo, e cioè il boss accusato di aver custodito i 150 chili di tritolo acquistati proprio per uccidere Di Matteo.
Graziano, però, alla fine della deposizione di Galatolo ha chiesto di potere fare dichiarazioni spontanee, smentendo di essere l’ideatore del piano per uccidere Di Matteo, ma confermando, a sorpresa, il resto del racconto messo a verbale dal pentito dell’Acquasanta. “Non fui io a prendere, di mia iniziativa, i contatti con il pentito Cucuzza: la richiesta parte da lui (e cioè lo stesso Galatolo, ndr). E purtroppo non potevo, per paura e per timore, esimermi dal farlo. Quella è la verità”, ha detto il presunto boss, intervenendo durante un’udienza fissata nei giorni scorsi a Torino per motivi di sicurezza e diventata di dominio pubblico soltanto dopo il deposito di alcuni verbali.
Parole che confermano in pratica il racconto di Galatolo, e che sono ritenute estremamente interessanti dagli inquirenti: Graziano, infatti, non è un collaboratore di giustizia, nonostante in aula abbia anche specificato di avere “già parlato con i pm di Caltanissetta (titolari dell’indagine sull’attentato a Di Matteo ndr)”. Al contrario, al processo Apocalisse, il nipote di Vincenzo Graziano è imputato per associazione mafiosa ed estorsione: a rendere emblematica la sua dichiarazione è appunto il fatto che non ha smentito tout court l’intero racconto di Galatolo, ma si è limitato a rispedire al mittente l’accusa di ideatore del progetto di omicidio, confermando invece tutto il resto.
“Quella di colpire il magistrato nella Capitale (durante il colloquio chiesto da Cucuzza, che però nel frattempo è deceduto ndr) era la terza opzione, dopo il furgone imbottito di tritolo con cui volevamo colpirlo al palazzo di giustizia e dopo l’agguato nella località di villeggiatura frequentata da Di Matteo, nell’hinterland palermitano”, è uno dei passi salienti del racconto messo a verbale da Galatolo. L’idea di contattare Cucuzza sarebbe servita all’inizio per cercare di assassinare altri collaboratori di giustizia: da Gaspare Spatuzza ad Antonino Giuffre’ fino a Giovanna Galatolo, sorella di Vito. Poi, però, si era pensato di utilizzare il pentito di Porta Nuova per attirare Di Matteo in un tranello: in quel caso l’agguato sarebbe stato condotto con armi pesanti che lo stesso Camillo Graziano aveva acquistato in Serbia.
Tutto si blocca nel giugno del 2014, quando scatta il blitz antimafia Apocalisse: tra i fermati anche lo stesso Galatolo, che 5 mesi dopo decide di “saltare il fosso” e collaborare con i magistrati. Il pentito svela subito i progetti di attentato messi in atto per uccidere Di Matteo, raccontando anche che erano stati ordinati da Matteo Messina Denaro. “Si è spinto troppo oltre”, avrebbe scritto il latitante di Castelvetrano in una missiva spedita nel dicembre 2012 ai boss di Palermo. Che si erano subito attivati per studiare come assassinare il magistrato.