"Paghiamo solo il dovuto per legge, rispettando l'esito delle consultazioni del 2011", sostengono i comitati che si oppongono allo sfruttamento dei beni comuni per fare profitti. Ma la utility Nuove Acque, partecipata da Mps e Etruria, di cui sono soci anche i Comuni, la francese Suez e la romana Acea, è passata al contrattacco. Partito esposto alla Procura e ricorso d'urgenza per chiedere il ripristino
Quel referendum tradito ad Arezzo non lo hanno mai mandato giù. Quando con il governo Monti apparve chiaro che i 27 milioni di voti contrari alla privatizzazione dell’acqua espressi dagli italiani nel 2011 erano carta straccia, in migliaia – organizzati in comitati di cittadini – hanno iniziato una silenziosa battaglia civile. In una città simbolo, crocevia dove si sono incontrati accordi politici e profitti privati, laboratorio di quel modello di gestione di acqua e rifiuti che ancora oggi domina in gran parte del paese. Era il 1999, diciassette anni fa, e proprio qui iniziò l’onda lunga delle privatizzazioni. Gli acquedotti funzionavano bene, l’acqua era di qualità, i prezzi contenuti. Un boccone ghiotto per le grandi multinazionali del settore. Scesero in campo i colossi internazionali: in prima fila Suez – oggi Gas de France – in cordata con i player nazionali. E quelli locali che contano.
Oggi la quota privata del gestore Nuove Acque (il 46,16% delle azioni) è in mano ai francesi, alla romana Acea e alle due banche simbolo del sistema Toscana, Mps e Banca Etruria. E qui si incrociavano – e spesso scontravano – le due anime del Partito democratico, con un Matteo Renzi sindaco di Firenze apparentemente schierato per la gestione pubblica e l’anima industrialista dei bersaniani legata al modello delle società per azioni miste. Il referendum qui metteva in discussione il sistema consolidato di poteri dove la politica si mescola con le banche e le multinazionali.
Il voto tradito e la ‘obbedienza civile’ – Il referendum del 2011 aveva abolito quello che i comitati cittadini hanno sempre ritenuto essere il vero grimaldello della gestione privata, la “remunerazione del capitale investito”. Una quota del 7% garantita per legge, tutta a carico degli utenti. Dopo il voto nulla è cambiato. Quella percentuale abrogata dal referendum è stata di fatto reintrodotta, giustificandola in sostanza come copertura dei costi. Una strategia anticipata da una serie di pareri chiesti dalla romana Acea subito dopo il referendum, affidati allo studio dell’avvocato Giulio Napolitano, figlio dell’ex presidente della Repubblica, come aveva rivelato ilfattoquotidiano.it nel novembre del 2011. Da Arezzo – la città storica del sistema privato – è partita la protesta, quando è apparso chiaro che nulla sarebbe cambiato. La chiamano “obbedienza civile”, perché “noi obbediamo al risultato del referendum”, spiega Lucio Belloni, figura storica dei comitati per l’acqua pubblica in Italia. “Ricalcoliamo le bollette, individuando la percentuale che nasconde quella remunerazione abolita dal referendum ma mantenuta dai governi fino ad oggi, e paghiamo solo il dovuto per legge”. Quel numero che il voto popolare aveva eliminato vale il 13% della bolletta: un’autoriduzione che un migliaio di famiglie in provincia di Arezzo applicano da ormai quattro anni.
Il gestore taglia l’acqua – Fino ad oggi la battaglia era andata avanti sui binari delle carte e dei ricorsi. Da un paio di settimane qualcosa è cambiato. Il gestore Nuove Acque ha deciso di passare alla maniere forti, tagliando i tubi agli “obbedienti civili”. Fino a oggi una decina di famiglie è rimasta senza acqua, con la temperatura che inizia a crescere. Tutte hanno sempre pagato quella quota ritenuta legittima (ovvero la parte rimanente tolta la percentuale del capitale investito abrogata dal referendum) e non si sono mai sentite morose: “Abbiamo subito presentato un esposto alla Procura della Repubblica – spiega Belloni – e un ricorso d’urgenza ex articolo 700 al giudice civile. Abbiamo sempre portato la nostra battaglia nelle sedi istituzionali e continueremo a farlo”.
La solidarietà dei comitati cittadini mostra una parte dell’Italia preziosa. Davanti alla casa di una coppia con bambino rimasta senza acqua è stato piazzato un camper: “Almeno possono farsi una doccia, in attesa di una decisione da parte dei tribunali”, spiegano gli attivisti. Poi ogni mattina arriva la staffetta, con le taniche d’acqua. Le scaricano davanti al portone, prendono quelle vuote, parlano a lungo con i vicini disposti a fornire a loro volta quell’acqua tagliata dall’azienda: “Ora ci organizzeremo con un tubo di gomma. E dato che noi siamo ‘obbedienti civili’, metteremo anche il contatore sul tubo, così la famiglia potrà pagare al vicino la sua quota di acqua”. Da queste parti sanno perfettamente qual è il valore del bene comune. Ogni frazione, ogni piccolo paesino ha un gruppo di referenti dei comitati aretini per l’acqua pubblica, una sorta di rete nata dopo la privatizzazione. Una faccia della politica paradossale: scomparsa dalle istituzioni, forte sui territori.
Il modello ‘Giglio magico’ – La Toscana rappresenta il lato più politico della ormai lunga battaglia sui beni comuni. “E’ il laboratorio nato e cresciuto qui, tra Arezzo e Firenze, e che oggi governa il paese”. La traccia più simbolica appare nella minuscola Laterina, città a pochi chilometri dal capoluogo. Una famiglia di “obbedienti” mette in bella vista sul tavolo della cucina le tante fatture autoridotte dopo il referendum tradito. Bollette decisamente pesanti. “Lo sa che questo è il paese della Boschi?”, chiede il capofamiglia, un anziano aretino Doc. “Io li conosco bene i Boschi, sono di Laterina. E sono uno di quelli che ha perso i soldi con Banca Etruria”, prosegue animandosi. Il nome della ministra i comitati acqua pubblica lo conoscono da tanto tempo. Sedeva nel consiglio di amministrazione di Publiacqua, il gestore fiorentino partecipato da Acea, che governa l’ambito idrico più importante della regione. A presiedere la principale società mista toscana c’era, fino a poco tempo fa, un altro nome chiave del giglio magico renziano, Erasmo D’Angelis, oggi direttore dell’Unità. E a capo del consiglio di amministrazione fino al 2014 c’era Alberto Irace, oggi amministratore delegato di Acea.
“Quando iniziammo la campagna per l’obbedienza civile – spiega Lucio Belloni – Irace e D’Angelis ci hanno voluto incontrare, scherzavano, ridevano, a parole erano per l’acqua pubblica”. Irace di acqua è uno che se ne intende. E’ stato responsabile per il gruppo Acea di tutta la Toscana dal 2010, proveniente da un’altra area controllata dalla multinazionale romana, il sarnese-vesuviano. E’ l’uomo chiave della principale spa che gestisce gli acquedotti in Italia, con circa sei milioni di utenze e un bilancio con centinaia di milioni di “remunerazione del capitale investito” accumulati negli anni. La Toscana ha rappresentato anche il laboratorio delle grandi intese economiche con la Francia. Nel 2008 l’Antitrust divulgò un documento riservato trovato nel corso di una istruttoria sul settore acqua: “C’era una frase che non posso dimenticare: ‘Utilizzare Acea come braccio armato di Suez per l’acqua in Italia’”, ricorda Lucio Belloni. Ed è dalla scuola francese che arriva quel modello di società miste lanciato dal laboratorio di Arezzo e Firenze, poi seguito dal Lazio.
Renzi, “rispettare il voto”. Anzi no – Pochi giorni dopo il referendum del giugno 2011, l’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi aveva le idee chiare sulla conseguenza di quel voto: “Al di là delle interpretazioni politiche il referendum ha dato dei risultati concreti e credo che sia giusto verificare se ci sono le condizioni tecniche ed economiche per rientrare il possesso del 40% di Publiacqua”. E ancora, nel febbraio del 2014, assicurava che “i risultati del referendum devono essere rispettati”. Era l’epoca della rottamazione, quando il nemico era la parte bersaniana del partito, vero pilastro politico (rappresentato soprattutto da Massimo D’Alema) che ha sempre sostenuto la presenza dei privati nella gestione dell’acqua. A quelle parole non seguì nessun fatto, anzi. In Parlamento è arrivata – con Renzi a palazzo Chigi – la legge d’iniziativa popolare presentata due anni prima del referendum, che doveva rappresentare il nuovo corso scaturito dal voto popolare. Il testo è uscito stravolto dalle commissioni, soprattutto su un punto: ai gestori quella quota di remunerazione del capitale – abrogata dal secondo quesito referendario – va garantita in ogni caso. I comitati di Arezzo non sono sorpresi, gli uomini del giglio magico renziano li conoscono da tempo: l’unica risposta che hanno ricevuto di fronte alla loro ‘obbedienza civile’ è il taglio dei tubi dell’acqua.