Sono allenati da Nenad Jakovljevic, tecnico del settore giovanile. "Il volontariato fa parte della nostra filosofia e, facendo uno screening delle esigenze del territorio, ci siamo accorti che i rifugiati avevano bisogno di una mano" spiega Trainotti, responsabile rapporti con le onlus
L’ultima iniziativa ha i volti di Moussa, Set, Boubacar, Sadjo e altri ventisei richiedenti asilo in Italia. Li hanno prima invitati a una partita, poi il pallone è finito direttamente nelle loro mani. Non avevano alcun obbligo, ma a Trento sono fatti così: hanno trasformato una società di pallacanestro nel volano per decine di iniziative sul territorio. Da novembre ce n’è una in più, in casa Aquila Basket Trento. Una squadra interamente composta da migranti accolti nel capoluogo trentino. Si allenano una volta a settimana sotto le cure di coach Nenad Jakovljevic, tecnico del settore giovanile del club, e hanno preso sul serio quell’ora e mezza da trascorrere in palestra, tanto che negli scorsi giorni è arrivata anche la prima amichevole, giocata contro la squadra della comunità filippina che risiede in città. Vengono da Mali, Senegal, Guinea, Somalia e non si sa se e quanto resteranno in Italia. “Il volontariato fa parte della nostra filosofia e, facendo uno screening delle esigenze del territorio, ci siamo accorti che i migranti avevano bisogno di una mano”, spiega a ilfattoquotidiano.it Stefano Trainotti, responsabile dei progetti con le onlus dell’Aquila Basket.
“Volevamo dare uno spazio a ragazzi che già giocavano a pallacanestro, così da permettere loro di fare in Italia quello che facevano prima. In realtà, non c’era nessuno che avesse maturato esperienze di basket, ma la risposta è stata ugualmente sorprendente”. Grazie al Centro Astalli, all’Associazione trentina accoglienza stranieri e a Cinformi, che gestisce i migranti per conto della Provincia, il progetto è partito a novembre e andrà avanti fino a maggio. “Nel corso dei mesi, riscontrando grande costanza e voglia di migliorarsi, siamo andati oltre, legando al basket altri strumenti d’integrazione”, continua Trainotti. Agli allenamenti, per esempio, si dialoga esclusivamente italiano: “Abbiamo fissato degli obiettivi linguistici, aspetto apprezzato dai ragazzi perché sentono l’esigenza di imparare e invece, passando molto tempo tra di loro, hanno poche occasioni di far pratica”. Sul parquet, la lingua è unica e alcuni volontari italiani arricchiscono il gruppo degli allievi e ampliano il vocabolario dei trenta migranti. Anche la prima squadra, attualmente quinta in Serie A, non si è sottratta all’impegno. A febbraio, l’iniziativa è entrata a far parte del progetto One Team di Eurolega, la Champions League del basket, che prevede un “ambasciatore” per ogni attività svolta. Così in palestra sono spesso scesi il capitano di Trento, Toto Forray, e il coach Maurizio Buscaglia.
“Un po’ per la nostra storia, un po’ per il contesto sociale nel quale ci muoviamo, abbiamo creato l’Aquila Basket for no profit. Prima era solo volontariato, poi è cresciuto. Ora abbiamo il prodotto sportivo come core business ma ci occupiamo anche di attività esterne, positive, che vanno a influenzare la qualità del tessuto sociale”, racconta Salvatore Trainotti, fratello di Stefano e general manager di Trento. Per capire come sia possibile conciliare mondi lontani sotto il profilo di gestione delle risorse come sport e no profit, bisogna andare alla radice di questa storia. L’Aquila Basket ha una struttura societaria anomala per il professionismo, almeno in Italia. “Fino alla Serie A2 c’erano sette soci. Da tre anni abbiamo invece una proprietà diffusa. Il 40% delle azioni è in mano a un’associazione di tifosi, una quota identica appartiene a un consorzio di sessanta aziende trentine – spiega il d.g. – Il 20% è di una fondazione, presieduta dai vecchi soci e che coinvolge diversi soggetti del territorio, comprese le istituzioni”. Da qui nasce l’integrazione totale tra città e club: “Il giocatore riesce a creare valore economico non solo vincendo la partita, ma anche partecipando alla vita sociale. Ecco quindi le partnership con il volontariato, le presenze alle iniziative del mondo no profit, le campagne di sensibilizzazione accanto alle istituzioni”. E spesso si sfocia in “fatti” concreti e tangibili: “La squadra di migranti è uno dei tanti. A giugno assegneremo tre borse di studio tra i ragazzi che fanno basket, vanno bene a scuola e hanno un reddito basso”.
In tutto questo, Trento ha raggiunto i playoff scudetto alla prima stagione in Serie A e quest’anno è arrivata a un passo dalla finale di Eurocup, l’Europa League dei canestri, eliminando una corazzata come l’Olimpia Milano. Eppure il budget dell’Aquila è nettamente inferiore a quello di molti club, in Italia e all’estero. “Il segreto è la governance manageriale. Tutte le persone che guidano la nostra società sono espressione di quel mondo e conoscono la parola responsabilità, che vuol dire amministrare con efficienza e in maniera economicamente sostenibile. L’approccio tipico dello sport italiano è un altro: a fine stagione il proprietario tira una riga, vede quanto manca e ripiana”. In Trentino funziona al contrario: “Il nostro bilancio è fatto di soldi veri e non cambiano da inizio a fine campionato. Ci guida una logica che va al di là del risultato e della singola annata. Cerchiamo di vincere il più possibile, certo. Ma se non ci riusciamo, ci riproviamo l’anno dopo facendo tesoro di quel che abbiamo già costruito – continua Salvatore Trainotti – Vedendo i nostri risultati, ci si accorge che con budget irrisori rispetto ai nostri competitor abbiamo fatto molto meglio. Le possibilità sono due: abbiamo una gran fortuna oppure l’approccio funziona”.
La via indicata da Trento è la programmazione, che non vuol dire solo avere bilanci in salute ma anche saper scegliere e aspettare. Mentre altrove va di moda l’usa e getta, l’allenatore dell’Aquila Basket, Maurizio Buscaglia, è lo stesso da sei anni. Sotto le Dolomiti hanno creduto – e ora stanno raccogliendo i frutti – nel talento di due giovani italiani, Davide Pascolo e Diego Flaccadori, rispettivamente classe ’90 e ’96, in squadra dal 2011 e dal 2014. La matrice è chiara: “Se fai parte di un sistema devi investire nel sistema. Siamo in Italia, quindi è importante dare valore ai nostri – conclude Trainotti – È una questione di responsabilità: un territorio che cresce ti aiuta a progredire. Conta la visione. La nostra è di medio-lungo periodo, quindi dobbiamo investire nel basket italiano”.