di Angelo Maria Cirasino *

La libreria più importante della città (Marzocco) trasformata in un supermercato gastronomico per la upper class, un’altra – almeno altrettanto storica (al Porcellino) – nel flagship store di un cioccolataio; delle superstiti, ben poche ormai sprovviste di un punto di ristoro, in ossequio alla filosofia Red (Read, Eat, Dream) imposta dal nuovo monopolista dell’editoria italiana (se lo sapesse il suo baffuto fondatore…); la terrazza di una biblioteca pubblica (Oblate) convertita in una caffetteria all’aperto con la più bella vista possibile sul centro storico; un antico e sontuoso cinema (Gambrinus) in cui si insedia un venditore statunitense di cotolette; il luogo-simbolo della città (Ponte Vecchio) concesso in affitto per la cena celebrativa di un fabbricante d’auto; l’intero primo piano del Mercato Centrale che diventa un immane ristorante ad alto prezzo e dubbia qualità; un edificio del Michelucci (Palazzina Reale, nel cuore della Stazione di Santa Maria Novella) ristrutturato in un tapas bar ad apertura prolungata; una delibera del Comune che, per “tutelare l’identità commerciale [sic] dell’area Unesco”, condiziona l’apertura di nuove rivendite alimentari alla messa in vendita di almeno il 70% di “prodotti della tradizione” (mettendo così al bando minimarket e kebabbari); infine, il più antico mercato delle pulci della città (piazza dei Ciompi) sbaraccato e deportato nel più classico dei non-luoghi (largo Annigoni) per far posto alla “Piazza del Cibo”, una kermesse permanente dello street food pensata – si vocifera – da un magnate locale della ristorazione.

Pasqua 2015, Firenze invasa dai turisti: code ai musei e file in autostrada

Sembra che, tardivamente gelosa della “Milano da bere” degli anni 80, questa città abbia deciso improvvisamente di diventare una “Firenze da mangiare”, vendendosi non più come culla del Rinascimento, casa natale della lingua o patrona di arti e lettere, ma come semplice testimonial mondiale del made in Eataly – con buona pace di Soprintendenze e libri di storia.

Tutto questo, si dice, risponde alla trasformazione globale della struttura dei bisogni innescata dalla crisi: con il calo generalizzato del potere d’acquisto, spesa e consumo si allontanano dal voluttuario orientandosi sempre più verso il soddisfacimento di esigenze elementari, ineliminabili, tra cui il mangiare occupa naturalmente il primo posto. C’è anche chi vede di buon occhio questo sviluppo postmoderno della civiltà dei consumi, come se esso esprimesse la fine della cultura del superfluo e il graduale riposizionarsi della convivenza attorno a valori più concreti e fondamentali; o magari il ritorno in auge di saperi e potenzialità locali soppressi dalla globalizzazione e legati a una concezione più territoriale, tradizionale e conviviale dell’esistenza.

Questo appello al locale, però, non spiega nulla della località, della natura tipicamente fiorentina di questo festino pantagruelico; che del resto è accompagnato da scelte di governo del territorio – queste sì, locali – davvero molto chiare, che ripropongono l’immagine del mangiare, come pratica o come metafora, in tutti gli ambiti della vita cittadina: le pedonalizzazioni strategiche proprio in prossimità degli esercizi alimentari “eccellenti”, con conseguente espulsione dal centro del trasporto pubblico (i bussini elettrici non contano: avete mai provato ad aspettarne uno?); la svendita dell’azienda che lo gestiva ad un privato che, operando in regime di monopolio, abbassa a suo piacimento gli standard prestazionali con conseguente collasso della mobilità urbana; l’interramento di 7,5 km di passante Tav che mette a rischio stabilità centinaia di edifici, pubblici e privati, e sposta l’asse del trasporto su ferro dal corto al lungo raggio – accentrandolo peraltro su una nuova faraonica stazione, sempre sotterranea e dunque invisibile ai residenti; la contemporanea trasformazione della Stazione di Santa Maria Novella in uno smisurato shopping mall, con conseguente riduzione all’osso degli spazi destinati agli utenti; la cantierizzazione pluriennale di un terzo della città per la realizzazione di tre linee tranviarie pesanti, poco economiche e a forte impatto; la costruzione, negli spazi destinati al Parco agricolo della Piana (alla faccia della filiera corta), di una nuova pista aeroportuale per ospitare voli intercontinentali che, per di più, passeranno a 150 metri in linea d’aria dalla cupola del Duomo (alla faccia dell’Unesco).

Quella che qui si afferma, in sostanza, è un’idea della città come snodo temporaneo di relazioni extraterritoriali, prevalentemente turistiche, centrate esclusivamente sulla vendita al dettaglio; una città votata non alla residenza ma alla visita occasionale, non alla produzione durevole (industriale, culturale o agro-alimentare che sia) ma al consumo immediato: insomma, una città da mangiare – se possibile in fretta, senza troppe pretese e, ça va sans dire, a pagamento.

E sì perché, per entrare in questo nuovo paese di cuccagna, bisogna sempre e comunque pagare; in esso vige una rigida separazione – di casta, si direbbe – tra venditori e consumatori di cibo, entrambi fortemente professionalizzati (grazie anche a una comunicazione che propaganda incessantemente tecnicismi improbabili come “impiattamento” o “pluristellato”), e non vi è assolutamente consentito prepararsi da mangiare da sé: il suo momento topico non è il pasto, ma il conto che lo segue (o più spesso – ahimé – lo precede); e il conto o lo presenti, o lo paghi.

La nuova movida alimentare fiorentina non è, così, la riconquista dello spazio dello scambio sociale da parte della convivialità ma, al contrario, un’espansione totalizzante della mercificazione che arriva ad estendersi fin sui momenti più elementari della convivenza umana – fin sull’atto esistenziale fondamentale del nutrirsi; non è il cibo che si riprende la città del commercio, ma il commercio che, attraverso il cibo, colonizza la città: saturandone gli spazi (fisici e concettuali), monopolizzandoli, sottraendoli all’uso pubblico e marginalizzando quelli residui.

Si arriva così al paradosso per cui il proliferare dei luoghi del cibo riduce in realtà lo spazio della convivialità, mentre il fiorire delle competenze sul cibo priva i suoi utenti della pur minima sovranità su di esso: abbiamo, cioè, una città che ti offre continuamente da mangiare ma che, oramai, è già stata mangiata tutta.

L’emergente narrazione alimentare di Firenze ha così due sensi, uno letterale (riferito al cibo) e uno metaforico (riferito alla città); ma entrambi ci raccontano di un esproprio, di una perdita, di una privazione: entrambe sono storie di fame, non di sazietà. E considerato che questa città, da fuori e da dentro, è giustamente percepita come la vetrina promozionale di un modello di governo del Paese, e delle persone che lo mettono in pratica, queste due storie locali alludono a una terza più generale, in cui facce allegre sedute intorno a un tavolo procedono senza sosta alla festosa confisca del patrimonio comune per il proprio e l’altrui consumo (sforacchiandolo qua e là, alterandone in permanenza le regole di governo, affidandone i pezzi in gestione ad amici fidati).

Ora, resta da capire solo una cosa: quanto impiegheremo, per realizzare che il meraviglioso banchetto è stato allestito per altri, e non per noi? Che manca poco perché costoro facciano fuori tutto quel che ne rimane? Quanto impiegheremo, in altre parole, per alzarci da tavola?

* filosofo della scienza, esperto di logica formale, di organizzazione del lavoro e di teorie della progettazione interattiva. Questo articolo è un’anteprima del numero 39 de La Città invisibile [http://www.perunaltracitta.org/la-citta-invisibile/]

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