L’altro giorno ero a Londra, e parlavo con Shany Payes, israeliana, che, dopo essere stata ricercatrice all’Università di Tel Aviv e dottoranda all’Università di Oxford, è attualmente impegnata in vari programmi internazionali di integrazione sociale. Mi raccontava di una coppia di suoi amici, entrambi uomini e gay, che sono appena diventati padri, grazie alla fecondazione per altri. I figli appena nati sono due, gemelli. O meglio, formati nello stesso utero e dal dna della stessa donatrice, ma geneticamente diversi per parte di padre. Infatti, i due uomini hanno richiesto una gestazione sincrona di due figli concepiti con i loro diversi spermatozoi. Devo dire di essere rimasta sorpresa, non conoscendo questa possibilità tra le tante offerte dalle varie cliniche internazionali dove la surrogacy è legale. In realtà, anche in natura esiste una (rara) possibilità che ciò accada, ultimo il caso del 2015, riportato dal Mirror, in cui una donna, fatto sesso con due uomini diversi in una stessa settimana fertile, aveva partorito due figli dai due padri.
Lo stupore mi ha portato a fare alcune considerazioni di carattere bioetico, ossia a partire dalla domanda: ogni scoperta scientifica è automaticamente un bene per l’umanità? Naturalmente, la risposta è ovvia, basti pensare alla bomba atomica: dipende che uso si fa di uno strumento. Ebbene, io sono favorevole alla surrogacy, e trovo limitato il pensiero di quelle femministe che la ritengono una pratica che sfrutta le donne, per il semplice fatto che non ritengo le donne indifesi esseri manipolabili (tra l’altro, consideriamo che, perfino in quei paesi dove la legislazione non tutela granché la gestante-donatrice, il compenso – per noi irrisorio – permette loro di mandare all’università oltre tre figli). Tuttavia, l’idea di plasmare così tanto il proprio destino fino al punto di poter decidere qualunque cosa riguardo ai propri figli, e al di là di ogni limite personale e di coppia, mi mozza il fiato. Mi sono chiesta cosa farne di questa emozione così forte e apparentemente distonica con le mie convinzioni, ed eccomi a condividerla con voi lettori.
Sapete che cos’è che spiazza anche gli osservatori più laici, anticonformisti, postmoderni e disinvolti? Anche i più radicali? Che la vita, oggi, si può creare in laboratorio. Che ciò che per millenni da tutte le culture, in ogni latitudine, è stato pensato, immaginato, vissuto, come qualcosa di magico e misterioso, oggi diventa un prodotto dell’ingegneria e, se vogliamo, anche del mercato. Che questo simbolo dell’azione femminile, dare la vita, oggi, diventa un neutro, qualcosa che nulla ha più a che vedere con il talamo, l’amore, la condivisione, la coppia, e, appunto, neppure con la donna. E nemmeno con il corpo! Perchè, in fin dei conti, con l’ingegneria riproduttiva il corpo come intero psichico si frange nei suoi singoli organi e parti. Insomma, il salto culturale è grande, e lo sforzo che dobbiamo fare per pensare che, sì, davvero oggi si nasce dalla testa di Zeus (uno Zeus-scienziato che crea al posto della donna, senza una copula, libero dal destino e onnipotente nel suo libero arbitrio) è faticoso.
Al ladro! Al ladro! grideranno le femministe, ricordando che la scienza è maschile, altro che un neutro! E forse un po’ hanno ragione, visto che la madre-donna si frammenta in madre sociale, gestante, donatrice, ognuna attrice di un pezzo in quello che naturalmente le spetterebbe per intero: dare alla luce. Insomma, diciamocelo qual è il vero shock, e lasciamo stare i poveri omosessuali, che in fondo c’entrano poco con questa rivoluzione epocale. Apriamo gli occhi e la mente (forse la chiave sarebbe aprire il cuore…): la nostra società globale è alle prese con l’elaborazione di un trauma, e cioè con la possibilità, da noi stessi creata, di rinunciare a quel fantastico quid di egotico narcisismo che ci permette di specchiarci nei nostri figli come “parte” (anche anatomica) di noi.
Evviva! Gridatelo: Evviva! Siamo liberi! Liberi di donare, liberi di amare. Liberi dal fardello (eccellente prodotto del consumismo) di considerare i figli un prodotto! Ed ecco che, cadute le maschere, compare il vero genitore: colui che sceglie, che dà senza nulla in cambio (nemmeno il godurioso riverbero dello specchio), che cresce ed educa in nome dell’amore, del rispetto, della generosità sincera e leale verso una nuova vita. E il “vero” genitore, me lo auguro, arriverà a battere il “genitore per forza”, colui che mette al mondo senza pensarci, senza un progetto, senza amore, o con violenza. Badate bene: non valuto la tecnica (naturale o artificiale), ma l’intenzione.
Già sento le urla di ribellione dei fautori della famiglia “tradizionale” (ignoranti! Studiate un po’ di storia, la famiglia tradizionale non esiste!!): “Vero” genitore?? Siamo all’apoteosi?? Eh no, cari tradizionalisti ignoranti. Siamo alla resa dei conti. Perché se accettate le penicelline, le chemioterapie, gli antibiotici ed altri composti chimici che ci salvano da morte certa, accetterete certamente anche quell’ingegneria medica che permette a coppie sterili (per il 70% eterosessuali) di diventare genitori di figli voluti. E, beffa delle beffe, pensate un po’: la prima (e unica) coppia gay italiana appena diventata legalmente famiglia è composta da due uomini.
Chi vuole approfondire, venga giovedi 14 aprile 2016 a Pordenone: tratterò questi argomenti al Festival del Cinema d’Inchiesta, dopo la proiezione del bellissimo documentario di Maya Newell (cresciuta da due madri, Gayby Baby) che ci racconta la vita quotidiana di Gus, Ebony, Matt e Graham, quattro bambini australiani tra i 10 e i 12 anni, figli di coppie gay e lesbiche: tutti sono alle prese con i primi dilemmi, desideri e fragilità dell’adolescenza, e se Gus è un appassionato di wrestling, Ebony sogna di diventare una cantante pop, Graham non ha ancora imparato a leggere e scrivere, e Matt è nel mezzo di una crisi esistenziale/religiosa. Ciò che sappiamo dei genitori, dei fratelli, della società, è solo ciò che i ragazzini vedono, e raccontano. Un ritratto emozionante e vero di che cosa significa essere una famiglia moderna e dover affrontare il pregiudizio della comunità in cui si vive, raccontato con gli occhi e le parole dei diretti protagonisti.