“La legislazione che ha l’Italia sulle trivellazioni è tra le più rigorose in Europa”. Questo ha ripetuto negli ultimi mesi il governo Renzi e questo ha detto anche il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti. È vero? Oppure, come dicono i promotori del referendum che si svolgerà il 17 aprile, l’Italia non è affatto severa con le compagnie, dal sistema delle royalties fino ai controlli? Le tasse e le norme statali nel settore degli idrocarburi sono il termometro per capire se uno Stato è favorevole o meno ai petrolieri e in Europa i vari Paesi adottano politiche molto differenti. C’è il caso della Norvegia, dove la tassazione è sì molto alta, ma lo è anche la produzione. Nonché il livello di controlli nei confronti delle compagnie. Esistono regole molto severe sull’estrazione di idrocarburi con l’obiettivo di preservare gli ecosistemi marini. Anche la Gran Bretagna è piuttosto favorevole allo sfruttamento degli idrocarburi, anche se con differenze molto nette caso per caso.
In Europa gli Stati si comportano in modo molto eterogeneo, come dimostra quanto avvenuto in Francia dove il ministro dell’Ecologia Ségolène Royal ha chiesto nei giorni scorsi lo stop a tutte le trivellazioni nel mar Mediterraneo, seguendo l’esempio della Croazia. Emblematico anche quanto accaduto alle Canarie dove un anno fa è finita l’avventura del gruppo petrolifero Repsol che, dopo sette settimane di lavoro di prospezione, ha annunciato che non avrebbe chiesto nuovi permessi per estrarre idrocarburi. Una decisione presa dalla società e non certo dal governo spagnolo che, nel rilasciare quei titoli, era andato anche contro le comunità e i governi locali.
LE PIATTAFORME NEI MARI EUROPEI: CHI TRIVELLA DI PIÙ – Sul numero di piattaforme che si trovano nelle acque dell’Unione europea gli ultimi dati disponibili sono quelli forniti dalla Commissione europea quando, nel 2011, ha stabilito nuove norme di sicurezza per le attività offshore, poi confluite nella Direttiva 2013/30/UE. Oltre mille gli impianti operativi per l’estrazione di petrolio o gas nelle acque europee, tenendo conto anche di quelli di Islanda, Liechtenstein (nell’Oceano Atlantico) e Norvegia. Non comprendono questi ultimi tre Stati, invece, i dati del 2010 (sempre della Commissione) relativi agli impianti nei singoli Paesi: la maggior parte, 486, nel Regno Unito, 81 in Olanda, 135 in Italia (ad oggi il numero è immutato) e 61 in Danimarca. Meno di 10 impianti, invece, in Germania, Irlanda, Spagna, Grecia, Romania, Bulgaria, Polonia.
LE REGOLE NEGLI ALTRI PAESI – Ma al di là dei numeri, come funziona del resto d’Europa? Come si comportano i governi degli altri Paesi con le compagnie petrolifere? In Francia le domande per ottenere un permesso di ricerca vanno inoltrate al ministero dell’Ecologia, dell’Energia e dello Sviluppo sostenibile che, una volta consultate le autorità locali interessate, valutano il progetto. Se il ministero non ha obiezioni di tipo tecnico o ambientale, il permesso di esplorazione viene concesso attraverso un decreto ministeriale. Tale permesso ha validità 5 anni, rinnovabile due volte. E se la compagnia trova petrolio o gas, per iniziare la coltivazione la società titolare del permesso di ricerca deve attendere il consenso ministeriale. Se accordata, la concessione di coltivazione ha una durata che varia normalmente tra i 25 e i 50 anni. Nel Regno Unito, il Petroleum Act del 1998 riconosce alla Corona britannica la proprietà delle risorse di idrocarburi presenti sul territorio e, quindi, il diritto esclusivo di esplorazione e produzione. Le attività vengono svolte attraverso un sistema di licenze. I permessi per le attività onshore sono assegnati su richiesta dei partecipanti, mentre per le attività offshore sono indette periodicamente delle aste di assegnazione.
IL CASO DELLA NORVEGIA – La Norvegia è uno dei Paesi con la maggior produzione di gas e petrolio (pari a oltre 20 volte quella dell’Italia) e impone regole molto severe sull’estrazione di idrocarburi. Non si possono effettuare sondaggi entro i 50 chilometri dalla riva. Solo a marzo Eni ha avviato la produzione del giacimento di Goliat, il primo impianto a olio a entrare in produzione nell’Artico, in una zona priva di ghiacci nel mare di Barents. Goliat doveva essere pronto nel 2013, ma l’ente norvegese che controlla le operazioni petrolifere, il Petroleum Safety Authority (Psa) dopo le ispezioni non ha mai dato l’ok, nonostante il mercato e le pressioni per un progetto di certo ambizioso. L’ultimo ‘no’ è arrivato a fine dicembre. Lo Stato norvegese mantiene il diritto di proprietà sui minerali del sottosuolo. Le attività di esplorazione e sfruttamento di tali risorse quindi, sono gestite con un sistema di assegnazione di licenze mediante cicli di asta.
LE TASSAZIONI PIÙ FAVOREVOLI AI PETROLIERI – Per comprendere se in un Paese venga o meno applicata una tassazione favorevole alle compagnie è necessario comparare i dati. In Italia, per l’offshore, l’aliquota delle royalties è del 7% per le estrazioni di petrolio e del 10% per l’estrazione di gas (è fissa al 10% su terraferma), ma le società non pagano nulla sotto la produzione di 50mila tonnellate per il petrolio e di 80mila metri cubi per il gas. Nel complesso il prelievo fiscale è tra il 50 e il 67,9%. In Germania, invece, l’aliquota delle royalties è del 10%, ma i singoli Länder possono prevederne una diversa. In realtà in molti Paesi le royalties sono state abolite e sostituite da sistemi diversi di tassazione. Secondo i dati diffusi da Nomisma Energia la Norvegia arriva a prelievi fiscali del 78% ed è tra i Paesi con la tassazione più alta, pur prevedendo una serie di benefici alle imprese. Di fatto il regime fiscale attira un alto livello di investimenti e di produzione di idrocarburi. Sono state abolite le royalties, mentre oggi esiste una tassazione specifica su attività petrolifere (pari al 50%) e una generica sui profitti delle società (pari al 28%). Nel Regno Unito il prelievo fiscale oscilla tra il 68 e l’82% perché i canoni variano in base al bando, senza royalties, abolite nel 2002. In Danimarca, invece, la tassazione può arrivare al 77%. La Francia utilizza un sistema di prelievo fiscale sulle attività petrolifere che prevede un mix di royalties, imposte sulla produzione e imposte sul reddito della società. Il Paese ha una bassa produzione e un altrettanto basso prelievo fiscale, in media tra il 37 ed il 50%.
LA FRANCIA SEGUE L’ESEMPIO DELLA CROAZIA – Nei giorni scorsi il ministro francese dell’Ecologia Ségolène Royal ha dato il via libera a una moratoria con effetto immediato sui permessi di ricerca di idrocarburi “viste le conseguenze drammatiche che possono colpire l’insieme del Mediterraneo in caso di incidente”. La moratoria riguarda sia le acque territoriali della Francia sia la zona economica esclusiva (la piattaforma continentale). L’intenzione, dunque, è quella di chiedere l’estensione del provvedimento “nel quadro della convenzione di Barcellona sulla protezione dell’ambiente marino e del litorale mediterraneo”. Una decisione che, nelle intenzioni del ministro, dovrebbe dare una forte spinta allo sviluppo dell’efficienza energetica e delle rinnovabili. La notizia in Italia è arrivata nel momento più delicato possibile, a una settimana dal referendum, ma non è una vera novità, dato che Royal aveva già annunciato a gennaio che la Francia avrebbe rifiutato ogni nuova richiesta di permesso di ricerca di idrocarburi. E proprio a gennaio, in Croazia, il nuovo premier Tihomir Oreskovic era stato altrettanto chiaro: “Presenterò al Parlamento una proposta di moratoria contro il piano di Zagabria per lo sfruttamento di gas e petrolio in Adriatico”. L’anno prima la Croazia aveva assegnato dieci licenze per la ricerca di idrocarburi in Adriatico, ma la scorsa estate alcune compagnie petrolifere hanno fatto dietrofront, rinunciando a sette delle concessioni ottenute. A marzo, invece, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha bloccato il piano per le trivellazioni di gas e petrolio al largo della costa sud orientale dell’Atlantico. Sempre Obama a ottobre scorso aveva congelato almeno per i prossimi 18 mesi’ e trivellazioni a largo dell’Alaska.