Dopo la lettura della sentenza gli imputati si sono abbracciati, rabbia invece da parte dei parenti dell'uomo morto all'ospedale di Varese dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei carabinieri. La Procura aveva chiesto l'assoluzione. Lucia Uva: "Continueremo la nostra battaglia"
Secondo la corte d’assise di Varese non hanno avuto nessuna responsabilità nella morte di Giuseppe Uva. Per questo sei poliziotti e due carabinieri sono stati scagionati dall’accusa di omicidio preterintenzionale “perché il fatto non sussiste”. Dopo un anno e sette mesi di udienze si è concluso così il processo su quello che avvenne la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008, quando Uva, operaio di 43 anni, morì all’ospedale di circolo di Varese dopo un trattamento sanitario obbligatorio nella caserma dei carabinieri e un successivo trasferimento nel reparto di psichiatria.
Gli imputati sono stati assolti con la stessa formula anche dalle accuse di abuso di autorità su arrestato e abbandono di incapace. Ha riqualificato invece il reato di arresto illegale in sequestro di persona, assolvendo gli imputati. Sono state accolte, in sostanza, le richieste del procuratore di Varese Daniela Borgonovo che, nelle scorse udienze, aveva proposto l’assoluzione. Mentre la sorella di Giuseppe, Lucia Uva, parte civile nel processo assieme ad altri familiari, assistiti dagli avvocati Fabio Ambrosetti, Alberto Zanzi e Fabio Matera, ha sottolineato che continuerà a “portare avanti la battaglia“. Dopo la lettura della sentenza la donna ha indossato una t-shirt con la scritta ‘assolti perché il fatto non sussiste’, mentre sua figlia è uscita dall’aula gridando “maledetti“. Secondo i familiari, infatti, Giuseppe Uva avrebbe subito violenze in caserma da parte delle forze dell’ordine. Per la Procura di Varese, invece, nonostante alcune anomalie nell’indagine – nelle mani del pm Agostino Abate, prima del trasferimento a Como disposto dal Csm – “non ci sono prove di comportamenti illegali” da parte dei poliziotti e carabinieri intervenuti quella notte, aveva detto il pm Borgonovo durante l’ultima udienza. Inoltre, sempre secondo l’accusa, Alberto Biggiogero, l’amico portato in caserma insieme a Uva quella notte, e testimone di quello che successe, è inattendibile.
“Finalmente è stata fatta giustizia”, ha sottolineato uno dei carabinieri, Stefano Dal Bosco, imputato assieme a Paolo Righetto e agli agenti Gioacchino Rubino, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Barone Focarelli, Bruno Belisario e Vito Capuano. “Eravamo tranquilli – ha proseguito Dal Bosco – perché quella notte non è successo nulla e nessuno di noi ha commesso reati. Non poteva andare diversamente”. Una soddisfazione espressa anche dai difensori, gli avvocati Luca Marsico, Duilio Mancini, Piero Porciani, Fabio Schembri e Luciano Di Pardo. “Ora carabinieri e poliziotti possono tornare a casa e guardare i figli negli occhi – ha spiegato l’avvocato Porciani – e possono continuare a fare il loro dovere”.
Un primo punto fermo sulla vicenda era già stato messo in passato con l’assoluzione dei medici in servizio quella notte in ospedale, finiti sotto processo con l’accusa di aver somministrato una dose sbagliata di farmaci al paziente. Giuseppe Uva aveva trascorso la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008 in alcuni bar di Varese assieme all’amico Alberto Biggiogero. Ubriachi, stavano spostando delle transenne per chiudere al traffico una strada quando furono fermati dai carabinieri e portati in caserma. Nel corso della notte, l’operaio fu trasportato con trattamento sanitario obbligatorio all’ospedale di Circolo di Varese, dove morì la mattina del 14 giugno per arresto cardiaco, dovuto a una grave patologia di cui era affetto combinata con lo stress e altri fattori. Otto anni dopo è arrivata la sentenza di primo grado nel processo a carico di carabinieri e poliziotti che intervennero quella notte.
“Ora la verità si fa ancora più lontana – ha sottolineato il senatore del Pd Luigi Manconi, presidente dell’associazione ‘A buon diritto’ – rimane la prova di straordinario coraggio civile dei familiari e, in particolare, della sorella Lucia che, senza alcuna risorsa e in un ambiente diffusamente ostile, non si è mai arresa”. “Si tratta di una brutta pagina di storia giudiziaria – ha dichiarato invece Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia – che richiama ancora una volta la necessità e l’urgenza di prevedere strumenti più adeguati di prevenzione e punizione delle morti in custodia”.