Succede ciclicamente. Con più o meno eco. Qualcuno si sveglia e si sente in diritto e dovere di reclamare chissà quale eredità morale e artistica nei confronti di Lucio Battisti. E siccome l’eredità artistica sul repertorio, il nome e l’immagine dell’artista appartiene di diritto agli eredi reali (si legga al nome Grazia Letizia Veronese, vedova Battisti), la cosa prende sempre la piega di qualcuno che cerca di convincere qualcun altro di avere ragione riguardo faccende che, tecnicamente, non lo riguardano.
Negli ultimi giorni, forse per noia o per assenza di altri argomenti più interessanti, ben due quotidiani nazionali sono tornati sulla faccenda: Il Giornale e La Repubblica . C’è addirittura chi ha lanciato l’hashtag #salviamoLucioBattisti.
Da una parte si è prospettato un futuro apocalittico senza più canzoni di Lucio Battisti, il tutto a causa della sua assenza dai siti di streaming e download dove la sua musica, resa liquida, sarebbe potuta arrivare ai più giovani, a rischio di rimanere all’oscuro di quanto di buono fatto dal cantautore di Poggio Bustone nel passato prossimo. Dall’altra si è più spinto sul fronte di recupero filologico dell’opera del cantautore laziale, sottolineando quanto di buono (apparentemente) fatto in tal senso dagli eredi di De Andrè e Gaber con le rispettive Fondazioni.
Ora, facciamo la tara dall’emotività. L’assenza di un gigante come Lucio Battisti dal nostro panorama musicale pesa, è indubbio. Lui che è stato, insieme a Domenico Modugno, il vero rivoluzionario della musica leggera di casa nostra, uno che, a differenza di quanto non abbiano fatto i cantautori tradizionali ha indicato delle strade precise, musicali, a metà strada tra la nostra tradizione e l’America. Uno talmente tanto geniale e straordinario da aver dimostrato che quello che sembrava il suo periodo introspettivo, criptico, cioè il post-Mogol, era in realtà quello più contemporaneo e moderno, attuale oggi come allora. Quindi sì, pesa molto la sua assenza, ma dire che sia a rischio scomparsa perché non lo si trova su Spotify o Youtube (dove per altro, se si cerca, si trova eccome), o che non ne avremo traccia futura perché non gli dedicano serate in televisione o premi, diciamolo a voce alta, è una immane sciocchezza.
I giovani, quelli che starebbero perdendo l’eredità lasciata, perché in effetti l’eredità artistica Battisti l’ha lasciata eccome, sanno benissimo come cercare quel che c’è da cercare. Sono nati con la rete, quelle che per noi erano ricerche affannate, per loro avvengono a velocità che fatichiamo a registrare, e sentirli cantare a memoria brani come E penso a te o Il mio canto libero, quando a cantarle sono i loro giovanissimi idoli, dimostra come, in effetti, di rischi reali non ne stiamo affatto correndo.
Semmai, dovrebbero questi signori pensarci due, tre, mille volte prima di gridare al miracolo, al capolavoro, al talento, allo straordinario a ogni passaggio tv o radio di uno di questi artistucoli prodotti dalla televisione e dalla radio.
Sono loro, in realtà, i programmi tv e radio dove la musica di bassa qualità oggi prospera e si moltiplica, a mettere a duro rischio l’eredità di Battisti, non certo le volontà della vedova di non lasciare che il nome del marito venga usato per Festival o diventi repertorio di tristi cover band. Se è vero che oggi il futuro della musica è stato delegato a qualche talent o a hit radio che proprio al mondo dei talent, quasi sempre, guardano, come si può poi piagnucolare che “i pomeriggi con il pane e Nutella non torneranno mai più?”.
Si cominciasse a prendere le distanze in maniera netta da quelle realtà, piuttosto, e a indicare dove si trovano le vere responsabilità di questo scempio. Non si può dire che la Amoroso ha al momento la più bella canzone italiana in circolazione, o che Briga è un genio e al tempo stesso piangere perché la vedova Battisti sta ferma sulle sue legittime posizioni. E del resto non si può neanche pensare che una Fondazione come quelle legittimamente messe in piedi per Gaber e De Andrè dai loro eredi avvicinerebbe Battisti ai giovanissimi, quelli che, appunto, la musica la sentono con gli smartphone e grazie alla rete.
Pensate forse che starebbero a sentire gli aneddoti su Battisti raccontati da Fazio? O messi in scena da Giletti in prima serata, come a una celebrazione di Padre Pio? O pensate che i giovanissimi si avvicinerebbero a Battisti perché in un premio, presieduto da quella gente lì, gli stessi che poi vanno da Giletti a parlare di musica, qualche vecchio nome si lancia in filologicamente corrette versioni dei suoi capolavori?
Per non dire delle cover band, che sono uno dei mali dei nostri tempi, uniche tristi realtà a muoversi nel sottobosco dei locali, sorta di imitatori allo sbaraglio che tengono in ostaggio la musica dal vivo dal basso. Pensate che non dar permesso al sorgere di una Lucio Battisti Cover Band impedisca a un ragazzino di incappare nelle meraviglie partorito dal cantautore, magari per averlo ascoltato in casa, dai genitori? Dai, siamo seri.
Piuttosto, salviamo Lucio Battisti da chi vuole salvare Lucio Battisti, Mogol in testa. Perché se già avevamo vissuto come un pugno nello stomaco il fatto che, nonostante quanto prodotto dopo, Mogol ambisse a fare di se stesso la metà di Battisti (immemore, forse, che Battisti è stato Battisti anche senza di lui), come dimostra la raccolta Le avventure di Lucio Battisti e Mogol, col nome del paroliere lì, nel titolo, alla stregua dell’artista, sicuramente abbiamo vissuto come una bestemmia la sua collaborazione con gli Audio 2, che della mimesi con Battisti hanno fatto brand, e ancor di più le canzoni di Battisti in chiave Rock riproposte dai New Era dello stesso Mogol, roba da far auspicare l’estinzione dell’eredità di Battisti in uno zot.
Ecco, smettiamola di avallare questi orrori. Smettiamola di inchinarci alle radio commerciali che del nostro patrimonio culturale e musicale fanno scempio. Smettiamola di andare in televisione a proclamare talenti e capolavori a comando.
Salviamo Lucio Battisti da chi vuole salvare Lucio Battisti, lanciamo l’hashtag.