Le chiamano ‘pedaladas fiscais”, pedalate fiscali. Ed i sondaggi ci raccontano come solo una ristrettissima minoranza dei brasiliani che, in queste ore, vanno manifestando, pro e contro l’impeachment, sappia davvero (nei minimi dettagli o anche soltanto per grandi linee) in che cosa consista questo alquanto oscuro (ed ancor più controverso) delitto amministrativo. Eppure sarà proprio pedalando che – volendo restare nella metafora – Dilma Rousseff salirà, tra meno d’un mese, sul patibolo d’una destituzione che appare ormai, non solo probabile, ma inevitabile. Ieri, com’era da giorni ampiamente pronosticato, la Camera dei Deputati ha a larghissima maggioranza votato, con 353 voti contro 128, per l’avvio del processo che intorno alla metà di maggio si concluderà – con una sentenza che appare già scritta – di fronte al Senato. Basterà, in questa occasione, la maggioranza semplice degli 81 membri della Camera Alta. E ben più di 41 sono i senatori che già hanno pubblicamente dichiarato, o lasciato chiaramente intendere, la propria intenzione di dare il benservito, anzi, il malservito alla ‘presidenta’.
Le ‘pedalate’ di cui Dilma è accusata sono sostanzialmente due. La Prima: una spesa aggiuntiva in bilancio di 27 miliardi di dollari che l’accusa ritiene illegalmente decisa senza il consenso del Parlamento (e che il governo, in linea con una prassi ampiamente adottata in passato senza conseguenza alcuna, considera al contrario una semplice ‘ridistribuzione delle risorse’). E, la seconda: il ritardato pagamento al Banco Central d’un credito destinato all’agricoltura (ritardo che, sempre secondo l’accusa, si configura invece come un prestito del Banco Central, pratica proibita dalla legge). Piccole cose, astrusità tecniche che risuonano come opinabilissime e criptiche facezie nel mare magnum degli scandali che scuotono le fondamenta del sistema politico ed economico brasiliano. Dubbiosissime bazzecole che nascondono, anzi, che per contrasto rivelano la natura volgarmente strumentale d’un processo d’impeachment la cui immagine appare, a tutti gli effetti, grottescamente capovolta. Ovvero: non come il più alto momento di lotta alla corruzione, ma come il più basso punto d’una lotta di potere che, di questa corruzione, è parte integrante. Anzi: che per molti aspetti ne è l’esaltazione.
Qualche dato, per meglio capire. Dilma Rousseff ha sicuramente, in senso lato, la colpa d’essere al vertice d’un sistema politico corrotto, del quale il suo partito – il PT fondato da Lula da Silva – è tragicamente diventato, in questi anni, il vero motore. Colpa ovviamente ingigantita dalla realtà d’una crisi economica prolungata e profonda. E tuttavia – nonostante sia da cinque anni il presidente della Nazione e nonostante sia stata in passato, come ministro dell’Energia, alla testa del Consiglio di Amministrazione di Petrobras, vero epicentro del terremoto giudiziario-politico che va sconvolgendo il Brasile – in senso specifico Dilma non è stata fin qui, contrariamente allo stesso Lula, accusata di nulla. Definirla ‘pulita” è forse eccessivo, dato il contesto. Ma di certo ‘pulita’ – rilucente, quasi – Dilma appare se rimirata sullo sfondo di queste alquanto sudice cifre. Dei 513 deputati che ieri hanno detto sì al suo impeachment, 303 sono sotto processo, o già sono stati condannati, per reati vari, quasi sempre legati ad episodi di corruzione, quelli legati a Petrobras ovviamente inclusi. E nel Senato – vale a dire, là dove la definitiva sentenza di condanna verrà emessa – le cose stanno anche peggio: 49 degli 81 membri (otto in più dei voti necessari per l’impeachment) vantano, infatti, ai più vari livelli, un curriculum ‘criminale’.
Un fatto è certo: dovesse il principio evangelico del ‘chi è senza peccato scagli la prima pietra’ avere un qualche valore nel Brasile di questi giorni, i parlamentari che ieri hanno ‘lapidato’ Dilma con i propri voti, avrebbero dovuto non solo abbandonare silenziosamente la scena – come avviene nel Vangelo – ma votare contro sé stessi. Ovvero: avrebbero dovuto, metaforicamente parlando, prendersi impietosamente a sassate. Il che ovviamente non è stato. Ed a tirare senza tentennamento alcuno la prima pietra – vale a dire a deporre il primo voto nell’urna – è stato anzi, per ragioni procedurali, proprio l’onorevole Alfonso Hamm, il cui nome appare in buon risalto nelle liste elaborate dal giudice Sergio Moro, il grande e popolarissimo inquisitore del ‘Lava Jato’…
Così stanno le cose. A cominciare il processo d’impeachment contro Dilma è notoriamente stato – sancendo la fine dell’alleanza tra PT e Pmdb, vera base del governo della Rousseff e, prima di lei, di quello di Lula – il presidente della Camera Eduardo Cunha, anche lui, secondo Moro, tra i principali beneficiari delle bustarelle di Petrobras. E dovesse Dilma essere destituita – cosa che appare ormai certa – al suo posto subentrerebbe l’attuale vicepresidente Michel Miguel Elias Temer, leader del partito (il Pmdb, per l’appunto) che della corruzione del sistema brasiliano rappresenta per molti aspetti la continuità, la vera ‘anima storica’…
Molti, nel PT – e più in generale a sinistra – parlano (del tutto a sproposito) di ‘golpe’. E non è, anche questo, che un modo per sfuggire ad una realtà che d’un golpe è, volendo ricorrere a un paradosso, per molti aspetti anche peggio. Perché quello che s’intravvede oltre questo assai sconcio processo d’impeachment non è, in effetti, che il lato oscuro della democrazia. Un lato dalle cui tenebre anche le forze del cambiamento sono state inghiottite. Ed è questa la vera tragedia.. .