Forse sarebbe dovuto finire tutto un anno fa. Totti segna due gol nel derby, festeggia sotto la curva, si scatta un selfie alla carriera con i suoi tifosi. La foto perfetta per ricordare un grande amore durato più di vent’anni, una vita intera da calciatore. Tutto quello che è venuto dopo è di troppo: il declino, gli acciacchi e le panchine, le polemiche. La storia fra Francesco Totti e la Roma sta finendo in ritardo e nel peggiore dei modi. Le speranze di chi ancora credeva in una riconciliazione si sono spente probabilmente a Bergamo, proprio nella partita in cui il capitano è tornato a segnare (non succedeva da 210 giorni, contro il Sassuolo a settembre 2015) e a essere decisivo, regalando un punticino prezioso ai giallorossi nella corsa al terzo posto. “Non cambia nulla”, ha detto gelido Spalletti.
Parole dure – “Totti non ha salvato niente, quel gol lo fa anche fra tre anni ma sono altre le cose che non vengono portate alla luce” – e non solo. Voci di spogliatoio parlano di una lite o addirittura di un contatto fisico fra i due, la differenza poco importa. E poco contano anche le smentite di circostanza del tecnico. Curioso che a mettere il punto sia proprio Spalletti, l’allenatore con cui qualche anno fa Totti disse che avrebbe voluto terminare la carriera. Certo non immaginava in questo modo. Dietro c’è il piano del presidente Pallotta di pensionare il capitano a fine stagione e contro la sua volontà. Ma i toni del contrasto ormai vanno oltre le semplici direttive societarie, diventano personali. Per Spalletti, Totti è un problema in allenamento, in conferenza stampa, persino in campo e persino quando segna, se la squadra pensa più a festeggiare il suo gol che a riprendere il gioco per provare la rimonta. Meglio farne a meno.
Non è la prima volta, del resto, che un allenatore rottama un campione: da Cuper e Ronaldo a Mourinho e Casillas, passando per Lippi e Baggio, la storia recente del pallone ne è piena. Ma non è neppure la prima bandiera che viene ammainata con disonore: Del Piero messo malamente alla porta dalla Juventus, Maldini fischiato a San Siro. Solo Zanetti ha ricevuto dall’Inter il commiato che meritava, lasciando quando e come voleva, nell’abbraccio dei tifosi. Ma il capitano dell’Inter era un leader silenzioso, per nulla ingombrante per dirigenti e allenatori. Forse nel calcio moderno – dove il business viene prima dei sentimenti e la smania di vittorie future cancella il passato – c’è sempre meno spazio per le bandiere. O più semplicemente, almeno in questo caso, il triste addio che non ha vincitori (come potranno Spalletti e Pallotta convivere col peso della rottamazione di Totti?) è solo la somma degli errori di tutti i protagonisti di una storia d’amore troppo intensa per finire bene.
Hanno sbagliato i tifosi nel credere che Totti sia ancora l’unico re di Roma come se il tempo non fosse mai passato, finendo per convincerne pure il diretto interessato. Ha sbagliato la società, con la sua freddezza irremovibile, di fronte a un pezzo di storia di cui gli americani hanno evidentemente capito molto poco. Ha sbagliato Spalletti, prigioniero del suo nuovo ruolo di sergente di ferro. Ma ha sbagliato anche il campione, con quell’improvvida intervista e il suo non accettare di mettersi da parte. Dopo aver sacrificato tutta una carriera (scudetti, Champions, palloni d’oro) per amore della città, in suo nome Totti avrebbe potuto anche rinunciare a quest’ultimo anno di contratto in più o in meno, così insignificante. Invece finisce tra insulti e indifferenza, senza nulla da festeggiare. Non il nuovo stadio o un’ultima vittoria, ma neppure un attimo importante. Come quella foto sotto la Sud, già sbiadita nell’album dei ricordi.