Da Bersani a Scajola, da Romani a Zanonato fino a Passera, i tentativi di incidere positivamente sul tessuto produttivo non sono mancati. Ma sono andati a vuoto. Nonostante le liberalizzazioni bersaniane le compagnie assicurative continuano a fare il bello e il cattivo tempo e le bollette non sono calate. Quanto all'ex numero uno di Intesa, era più interessato a promuovere se stesso che al rilancio industriale
“Il ministero vuoto è uno scandalo”. Così tuonava Pierluigi Bersani nel 2010 quando, in seguito alle dimissioni di Claudio Scajola, l’allora premier Silvio Berlusconi avocò a sé per quattro mesi l’incarico di ministro dello Sviluppo economico. L’ex segretario del Pd sapeva bene che quella poltrona non può restare a lungo vuota perché il Mise è importantissimo. Lo Sviluppo economico definisce la politica industriale del Paese, delinea la strategia energetica nazionale e, infine, regolamenta settori strategici come media, poste e telefonia. Ma soprattutto, il dicastero di via Veneto è l’ambasciatore economico del Paese all’estero: in un mondo sempre più globale, il ministero organizza infatti periodicamente missioni internazionali che servono a procurare nuovi, importanti, contratti agli imprenditori italiani. In poche parole, lo Sviluppo economico svolge funzioni essenziali per l’economia grazie a un esercito di migliaia di collaboratori e oltre 3.200 dipendenti organizzati in quattordici direzioni generali e una miriade di divisioni.
Tuttavia, dopo lo scandalo petroli che ha portato all’addio di Federica Guidi, la cautela è d’obbligo per Matteo Renzi che ha perso per strada quattro ministri (Lanzetta, Mogherini e Lupi oltre alla Guidi). Per il premier, che ha avocato a sé il dicastero, è essenziale scegliere la persona giusta per lo Sviluppo economico. Anche perché, nel caso non funzioni, non potrà “licenziarlo” come accade in Francia o Inghilterra, ma dovrà tenerselo fino al termine della legislatura. A meno che non si dimetta o non venga sfiduciato, un caso più teorico che pratico: secondo i dati Openpolis, nelle prime 15 legislature deputati e senatori hanno votato una dozzina di mozioni nei confronti di singoli ministri di cui una sola è andata a buon fine, quella di Filippo Mancuso, ex ministro della Giustizia del governo Dini negli anni di Tangentopoli.
Si capisce bene perché Renzi voglia evitare passi falsi, guardandosi anche solo dal commentare il totonomine che per lo Sviluppo economico vede ben piazzati il viceministro Teresa Bellanova, il manager Andrea Guerra, il responsabile economico del Pd Filippo Taddei e Vasco Errani, già governatore dell’Emilia Romagna vicino a Bersani. In attesa della decisione del premier, però, al Mise si accumulano dossier bollenti.
Del resto la poltrona è strategica per tenere in piedi in Paese che sta attraversando una crisi senza precedenti. Ciononostante, sin dalla sua istituzione nel 2006 (prima esistevano un ministero dell’Industria e uno del Commercio con l’estero), allo Sviluppo economico non è mai arrivato un ministro che sia riuscito a lasciare il segno incidendo positivamente sul tessuto produttivo italiano. Eppure, negli anni, i tentativi, di partiti e tecnici, non sono mancati. Nella storia del Mise, il primo a provarci è Bersani con il decreto liberalizzazioni approvato durante il secondo governo Prodi: l’intervento normativo che porta il suo nome promette di portare grandi benefici per le tasche dei consumatori grazie ai ribassi attesi nei prezzi di polizze assicurative, bollette telefoniche ed energetiche. A distanza di anni, però, il risultato finale è lontano dalle aspettative: le compagnie assicurative continuano a fare il bello e il cattivo tempo, mentre le liberalizzazioni bersaniane segnano l’apertura del mercato energetico italiano alle compagnie straniere senza peraltro riuscire ad ottenere in cambio pari trattamento all’estero.
Finita la stagione di Bersani, sotto il governo Berlusconi IV, allo Sviluppo economico arriva Claudio Scajola divenuto celebre più per l’appartamento con vista Colosseo, acquistato a sua insaputa, che non per strategie di sviluppo a favore del Paese. Scajola si dimette a quasi due anni dall’insediamento in seguito allo scandalo legato al costruttore Anemone, non prima di aver tentato un ritorno al nucleare contro la volontà del Paese. Segue un interim berlusconiano prima dell’arrivo di Paolo Romani, che eredita da Scajola la missione nucleare, finita con un nulla di fatto e tante polemiche fra i due protagonisti Enel e Edf. L’incarico viene inaugurato con grandi proclami: Romani, che come esperienza manageriale ha al suo attivo il fallimento di Lombardia 7 tv, promette di rivitalizzare il dossier dell’Italia digitale. Ma, in realtà, durante la sua gestione, al Mise non si muove nulla. Basti pensare che, delusi, i più importanti manager italiani delle telecomunicazioni (da Franco Bernabé allora in Telecom a Paolo Bertoluzzo di Vodafone passando per Corrado Sciolla di BT Italia) firmano una petizione per avere “proposte concrete entro 100 giorni”. Ma nulla smuove Romani che gioca a favore del duopolio Rai–Mediaset destinando il Paese al ritardo digitale.
Verso il finire del 2011, complice la crisi del debito sovrano con lo spread alle stelle, il governo Berlusconi cede il passo ai tecnici di Mario Monti lasciando in eredità 141 vertenze industriali. Peccato però che il nuovo inquilino del dicastero s’intenda poco di industria: è il banchiere Corrado Passera, più interessato a promuovere se stesso che non il rilancio industriale del Paese. “Dalla Fincantieri di Sestri alla Vinyls, dall’Omsa ad Agile Eutelia, in Alenia, persino alla Fiat di Torino: Passera non si è mai visto – riferisce un esemplificativo articolo dell’Espresso datato 28 agosto 2012 – E ovunque le risposte sono un coro unanime: “Qui non è mai venuto. Non credo si sia mai interessato alla nostra vertenza”. Con l’unica eccezione della sarda Alcoa: “Lo abbiamo incontrato al ministero una volta, il 27 marzo scorso, per un quarto d’ora”, dice il sindacalista Rino Barca”. Passera non ama le grandi vertenze sindacali che sono cariche di forti tensioni sociali. Lo dimostra con il suo operato. E in occasione di una visita istituzionale nel Sulcis, diventa persino protagonista, accanto al collega della Coesione territoriale, Fabrizio Barca, di una rocambolesca fuga in elicottero dai manifestanti. Da ministro, l’ex banchiere preferisce le start-up alle quali il governo dispensa soldi attraverso la controllata dello Sviluppo economico, Invitalia.
Quando arriva il governo di Enrico Letta nell’aprile 2013, la crisi del debito è rientrata. Ma quella dell’economia reale è appena iniziata. E’ essenziale quindi che al Mise arrivi un ministro forte. Letta punta sull’ex sindaco di Padova, Flavio Zanonato, il “Formigoni del Veneto” che può contare sull’amicizia con il potente leader ciellino Graziano Debellini. Zanonato, che da sindaco svende la municipalizzata da Padova, promette una vera svolta al Mise: ritorna sui tavoli delle vertenze e annuncia il rilancio dell’Italia nell’era digitale. Ma, in realtà, fa il gioco delle lobby, specie quelle assicurative e, come gli ex colleghi Romani a Passera, ha un unico input: tagliare la spesa per risanare. Magari vendendo anche i gioielli di Stato come ha fatto in tempi più recenti il governo Renzi che per la massima poltrona del Mise sceglie la confindustriale Federica Guidi. L’ex ministro conosce in profondità i problemi delle imprese. Si concentra su internazionalizzazione e energia, questione, quest’ultima, di cui si discute anche troppo fra le mura domestiche. Così alla fine il Mise arriva nelle mani di Renzi che, in vista delle comunali di primavera, non può permettersi di sbagliare mancando di centrare la sua missione: “Sbloccare il Paese”. Con l’aiuto dei fondi del Mise e la benedizione del Tesoro.