Lo scorso 3 aprile il magistrato è stato pedinato dal Tribunale fin sotto casa, dove ha trovato nella buca delle lettere una missiva anonima. Quella lettera scritta in un italiano stentato ma ritenuta credibile ha spinto la Prefettura ad assegnare la scorta al magistrato
Lascia svelto il banco dell’accusa e si piazza davanti al pentito Luciano Nocera, nascosto dietro il telo bianco. Vuole guardarlo negli occhi mentre lo incalza con le sue domande. Pretende una ricostruzione minuziosa, come quella fatta nei venti verbali riempiti davanti ai magistrati della Dda in ore e ore di interrogatorio. Lui conosce a memoria nomi, date, luoghi e reati. E’ il suo lavoro. Ma vuole che quei fatti siano ascoltati anche dai giudici. La voce si accende quando i dettagli scarseggiano. Alza il pollice quando il collaboratore di giustizia è preciso. Esile. Il volto tagliente incorniciato da occhiali spessi e baffi grigi. Il pm Marcello Musso avvicina la bocca al microfono ogni volta che deve pronunciare quella parola. Un gesto ostentato. Per enfatizzarla. Per farla sentire a tutti. Per ribadire pubblicamente di non temerla. La scandisce bene con il marcato accento piemontese: “’N-d-r-a-n-g-h-e-t- a”.
Soprattutto ora, dopo aver subito quell’inquietante minaccia. Sopratutto qui, davanti a decine di avvocati, cinque imputati e a un gruppetto di giornalisti, nell’aula della settima sezione penale al terzo piano del palazzo di giustizia di Milano dove si celebra il processo “Pavone”: il grande romanzo nero sulla malavita milanese. Che in abbreviato si è già tradotto in più di trenta condanne con pene fino a vent’anni. Quattro capitoli di un’inchiesta colossale nata dal lavoro di Musso che la mafia la combatte da una vita. Prima a Palermo. Poi su, al Nord, a Milano, dove ha fatto condannare all’ergastolo il capo dei capi di Cosa nostra Totò Riina per una serie di omicidi, tra cui quello di Gaetano Carollo, legato al boss Francesco Madoania, freddato nell’87 a Liscate. E ha condotto le indagini sulle aggressioni con l’acido che hanno portato in carcere Martina Levato e Alexander Boettcher. E’ proprio qui, sotto le guglie del Duomo, che lo scorso 3 aprile il magistrato è stato pedinato dal Tribunale fin sotto casa, dove ha trovato nella buca delle lettere una missiva anonima. “Acido c’è anche per te”. Poi il riferimento nella missiva a Francesco “Gianco” Castriotta, pezzo da novanta del narcotraffico, condannato in via definitiva a 23 anni di carcere (in un’altra inchiesta di Musso) e imputato anche in questo procedimento. “Gianco” è latitante da sei anni dopo essere stato liberato per priapismo. “Ti piace vedere gente portata in manette… ai cristiani chiedi di aiutarti a trovare il ragazzo scappato per forza che lai di mira di quarto…”, scrive il mittente dimostrando di conoscere bene queste indagini sui traffici di cocaina tra famiglie ‘ndranghetiste come i Muscatello, padroni del locale di Mariano Comense, e batterie come quella di “Gianco”, ex uomo di fiducia del re di Quarto Oggiaro, Biagio Crisafulli, detto “Dentino”. “Voglio esprimere, anche a nome del Foro di Milano, vicinanza e solidarietà al pm Musso”, dichiara l’avvocato Fabio Belloni prima che si apra l’udienza. Il magistrato ringrazia. E fuori dall’aula dice che continuerà a fare il suo lavoro “con determinazione”. “Spero, poi, che il Tribunale riconosca le le giuste pene agli imputati”.
Quella lettera scritta in un italiano stentato ma ritenuta credibile ha spinto la Prefettura ad assegnare la scorta al magistrato. Che ora sta interrogando Luciano Nocera, arrestato e condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Ernesto Albanese, scannato con più di trenta coltellate l’8 giugno 2014. Nocera è già stato condannato a 4 anni di carcere con rito abbreviato in “Pavone”. Dopo essersi buttato pentito, ha fatto luce su due assassinii (tra cui quello di Albanese) e su dieci anni di ‘ndrangheta a Nord, tra Milano e Como. Davanti ai giudici parla dei suoi traffici di droga. “Negli anni ’90 eroina, dopo cocaina”, racconta come se parlasse di caramelle. Chili di droga smerciati con i Muscatello. Ma Musso punta anche ad altro. Gli chiede della famiglia Paviglianiti, finita nelle più grandi inchieste contro la mafia a Nord. In aula c’è anche Antonino Paviglianiti, imputato e ora in regime di detenzione domiciliare. “Nel 2006 o 2007 diedi a Marco Paviglianiti (nipote di Antonino, ndr) mezzo chilo di cocaina, non uno come mi chiese: non mi fidavo. Con Antonino invece non ho mai fatto affari”, racconta Nocera che, incalzato dal pm, aggiunge: “La loro è una ‘ndrangheta storica con forti radici in Calabria”. Parole che fanno girare di scatto Musso verso Antonino Paviglianiti. I due si guardano. Musso sorride. Paviglianiti non batte ciglio. Poco dopo esce dall’aula.